Nell’antica città russa di Uljanovsk (870 chilometri a est di Mosca), patria di Lenin (la vecchia Simbirsk fu ribattezzata così, nel 1924, proprio in suo onore: all’anagrafe il rivoluzionario si chiamava Vladimir Uljanov) c’è uno stupefacente teatro delle bambole meccanizzato. Immaginatevi un grande tavolo, sul quale è presente un’intera comunità contadina: 49 piccole figure, ognuna delle quali impegnata nelle sue faccende. C’è chi fa il bucato, chi sega, chi cucina, e tutti si muovono in contemporanea.
Questo giocattolo enorme dai tanti personaggi è conservato nel museo del locale teatro delle bambole. L’aveva realizzato un contadino non istruito ma ricco di talento, Aleksej Morozov, all’inizio del XX secolo, più o meno negli anni compresi tra il 1905 e il 1912. La data precisa non si conosce, perché l’artigiano continuò a lungo a cambiare qualche dettaglio della costruzione, con la quale voleva mostrare un giorno tipico della vita di un villaggio russo di prima della Rivoluzione.
Il meccanismo funziona come un organetto: un tempo bisognava girare la manovella, mentre ora le bambole sono mosse da un motorino elettrico. Ogni personaggio ha un suo ingranaggio, che lo collega alle altre figure. Il tutto è realizzato così magistralmente, che si possono apprezzare i più piccoli movimenti e dettagli.
Ecco, per esempio, una donna che setaccia la farina, mentre altre tagliano il cavolo da mettere a fermentare per l’inverno. Le loro trecce sono fatte di capelli veri. All’altro capo del tavolo una madre di famiglia fa il bucato, mentre la figlia spinge la carrozzina del più piccolo di casa.
Vicino a loro degli uomini sono al lavoro: un carpentiere picchia col martello sullo scalpello e con lenti movimenti toglie via le scaglie di legno.
Dei calzolai fabbricano scarpe: nelle loro mani gli strumenti sono piccolissimi, lunghi un paio di centimetri, e i chiodi pochi millimetri, e tutto è una copia esatta, in miniatura, degli utensili veri.
Al centro una ragazza fila, dopo essersi inumidita con la saliva il dito per arrotolare il filo. E vicino a lei una tessitrice manovra il telaio, regolandone l’altezza con le sue piccole gambette.
Degli uomini abbattono un tronco d’albero: uno regge l’accetta e un altro lo aiuta portandosi stancamente una sigaretta alle labbra e guardando verso gli spettatori. Sembra che il fusto stia per venir giù, dopo aver retto per oltre un secolo.
Ed ecco che una famiglia si è riunita per il pranzo. La prima cucchiaiata spetta al padre, solo dopo possono iniziare a mangiare gli altri. Ci sono la moglie e i figli e l’anziana madre, con una ragnatela di rughe sulla fronte, che dà da mangiare al più piccolo di casa. Porta il cucchiaio alle labbra del bimbo e quello se lo mette in bocca, poi gira la testa e sputa la pappa, proprio come fanno tanti bambini di oggi.
Dicono che in questa miniatura del diorama Aleksej Morozov abbia ritratto se stesso e la sua famiglia, e solo così possiamo immaginare che aspetto avesse. Non si sono conservati né ritratti né fotografie di questo geniale artigiano. Di lui è noto soltanto che nacque attorno al 1867 nella città di Shadrinsk, al di là degli Urali, e che ogni primavera si metteva in viaggio con il suo teatro delle bambole per dare spettacoli in tutte le fiere in giro per la Russia. Chiamava le bambole della sua collezione “legno animato”, e per ogni scena c’erano versi di accompagnamento scherzosi, adorati dai bambini.
Già in vita si guadagnò la fama di maestro di quest’arte: la direttrice del museo Irina Majsakova racconta che è stato possibile trovare testimonianze delle sue bambole meccanizzate negli archivi. Nel 1923 Morozov presentò la sua collezione alla Prima mostra di tutta l’Unione del Kustprom (l’antenato del VdnKh, l’Esposizione delle conquiste dell’economia nazionale) e ottenne un diploma e la medaglia d’oro. I suoi figli trovarono solo documenti relativi a questa medaglia, ma non la medaglia stessa, che, probabilmente, nei duri anni della guerra fu data via per un po’ di cibo. Come racconta Irina Majsakova, con ogni probabilità, per quella mostra Morozov preparò anche altri diorami: “Una giornata della direzione del Kolkhoz”, “Una giornata di una agiata famiglia contadina” e “Una sera in un circolo ricreativo di campagna”. “Negli archivi si sono trovati solo disegni che mostrano come dovesse apparire il tutto”, dice la direttrice del museo. Può essere che siano finiti all’estero e si trovino in qualche collezione privata, ma non c’è nessun documento a supporto di questa teoria.
Dopo la mostra, l’artigiano progettò un nuovo diorama animato, ma nel 1934 si trasferì con la famiglia a Majna, una settantina di chilometri a ovest di Uljanovsk, e lì morì due anni dopo. Fu seppellito là, nel cimitero del villaggio, ma la sua tomba è ignota. I suoi bisnipoti vivono a Uljanovsk.
Nel museo è conservata anche una seconda collezione realizzata dal suo figlio minore, Vasilij, nel 1947, di ritorno dal fronte: una bottega di fabbro e falegname. In questa composizione le bambole di esperti artigiani insegnano a lavorare a bambole apprendisti operai. Uno dà talmente con regolarità una pacca sulla spalla a una ragazza che, con il tempo, si è persino formato un buco sulla sua tuta da lavoro. Vasilij sarebbe potuto diventare un vero maestro e ricalcare i passi del padre, ma, gravemente ferito in guerra (era tornato senza le gambe), morì in quello stesso anno. Questa collezione fu donata all’ex direttore del museo personalmente dai suoi figli, mentre quella più antica è apparsa qui, si può dire per caso.
Negli anni Sessanta, i figli di Morozov trovarono nella vecchia casa del padre un cassone con le bambole, e il teatro le acquistò per una cifra abbastanza considerevole: 500 rubli (che all’epoca equivalevano a quattro mensilità di un operaio). Adesso il suo valore è inestimabile, e molti musei avrebbero voluto accaparrarsela. Le bambole erano in condizioni ottimali, ma smontate, e di figure ce n’erano di più di adesso. Dicono che ci fossero anche ragazze che mangiavano semi di girasole e un secondo trattore, e nessuno sa dove siano finiti questi pezzi. Il tutto fu assemblato seguendo un disegno piuttosto primitivo con le istruzioni, trovato anch’esso nel cassone.
“Nel 1980, cercammo di trasferire la collezione a Mosca, al VdnKh, ma durante il percorso qualcosa si ruppe e a Uljanovsk fu necessario ripararla per la seconda volta”, racconta la Majsakova. Adesso se ne prendono cura due ingegneri e dicono che la cosa fondamentale è non spostare niente. Un paio d’anni fa il museo è stato trasferito dal secondo al primo piano dell’edificio, e probabilmente nel trasloco si è avuta un’inclinazione della struttura, perché ora alcuni frammenti non si muovono come dovrebbero.
“Per esempio, guardate questa ragazza sulla terra non arata, il suo scarponcello non arriva fino al rastrello come dovrebbe. E i nostri ingegneri non sono riusciti a riparare la figurina in nessun modo”, spiega la Majsakova.
Ma, in generale, in un secolo intero alle bambole non è successo niente di male. Tutto funziona e persino i costumi e i colori dalle facce non si sono sbiaditi. Che siano davvero vivi? “Una volta ero qui nel mio ufficio e sentivo battere ritmicamente una piccola accetta, ma sapevo che il diorama era spento”, racconta la direttrice. “Sono venuta di qua e tutto era fermo ma uno dei figli di Morozov lavorava. Nessuno ha saputo spiegare il fenomeno”.
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