La copertina del libro |
Questo è un romanzo in cui si ride. E anche tanto. Nonostante sia complicato per un lettore non russo cogliere appieno un senso dell’umorismo tanto diverso dal proprio, “Mosca – Petuškì. Poema ferroviario” (Quodlibet, p. 216, 15 euro) di Venedikt Erofeev è innanzitutto un libro molto divertente. Scritto nel 1970, ha circolato in abbondanza di copie in Unione Sovietica come samizdat, autopubblicazione clandestina diffusa per aggirare la censura, fino ad una prima versione ufficiale del 1988. È del 1977, invece, la prima uscita italiana con il titolo di “Mosca sulla vodka”. L’opera di Erofeev – uno dei pochi manoscritti che l’autore non dimenticò in giro ubriaco o non barattò per comprare liquori – torna oggi con la traduzione e l’introduzione di Paolo Nori, da leggere assolutamente: un racconto nel racconto, che sul filo della memoria e dell’ironia presenta l’originale figura di Venedikt Erofeev.
Nato nel 1938 nella penisola di Kola, vicino al Circolo Polare Artico, si trasferisce giovanissimo a Mosca e fa mille mestieri dopo essere stato espulso dall’università: facchino, manovale, trivellatore, bibliotecario, guardia armata. Perde un lavoro dopo l’altro, spesso dorme dove gli capita e soprattutto beve. Qualunque cosa. Di lui si racconta che, a corto di soldi e di alcol, talvolta non esitasse a trangugiare perfino i profumi da donna.
Ora prendete questo personaggio sregolato, questo Bukowsky in salsa russa, e immaginatelo su un treno che collega Mosca a Petuškì, a dialogare con se stesso – dandosi l’affettuoso soprannome di Venicka – e con gli altrettanto straordinari passeggeri dello scompartimento. Così nasce il “Poema ferroviario”, un racconto allucinato e lucido insieme, che si snoda lungo i centotrenta chilometri che separano le due città. A Petuškì – ma ci arriverà poi veramente a Petuškì o è stato tutto un sogno? - lo aspettano una ragazza, «biondissima diavolessa, zarina spudorata dagli occhi di nuvola», e un figlio, l’unico affetto che nuota incontaminato e puro nel mare di alcol in cui affoga tutta la sua vita.
Vodka, vino, birra, improbabili cocktail preparati con la vernice o l’acqua di Colonia: Venicka – Venedikt si lancia con piglio scientifico in un’appassionata indagine del «singhiozzo da ubriachezza nel suo aspetto matematico» per concludere che «il singhiozzo è al di sopra di ogni legge». Spiega come riprendersi quando si è «inciclonati», cioè completamente sbronzi: «Uscito dalla stazione Savelskaja avevo bevuto per cominciare un bicchiere di vodka del Bisonte perché so per esperienza che, come decotto mattutino, il genere umano non ha ancora inventato niente di meglio». Ma il “Poema ferroviario” è ben lontano dall’essere solo una fenomenologia del bere. È una geniale e colta satira su un potere che si copre di ridicolo – la Rivoluzione è oggetto di una feroce presa in giro – su una Russia pigra, fannullona, stordita dalla vodka che scorre a fiumi, anestetico necessario ad un ottuso e salutare stordimento.
Sul Mosca – Petuškì l’alcol si misura a peso. Il biglietto costa un grammo al chilometro, da pagare direttamente a controllori corrotti che invece di multare chi non ce l’ha, incassano il dovuto facendosi riempire il bicchiere. Il treno si trasforma in una eccezionale galleria di personaggi, che alternano momenti di nonsense ad altri di estrema consapevolezza. E lo scompartimento in cui viaggia Venicka diventa così un grande contenitore di storie – divertenti, strampalate, commoventi – che ubriacano il lettore come una bottiglia di buona vodka.
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