Vladimir Nabokov (Foto: Getty Images) |
Un giornalista del New York Times un giorno intervistò Vladimir Nabokov a Montreaux, nell’albergo nel quale lo scrittore viveva con la moglie Vera da quando avevano lasciato gli Stati Uniti dopo avervi trascorsero vent’anni della loro vita. All’epoca lo scrittore aveva 72 anni. Il romanzo “Lolita” gli aveva assicurato il successo, ma gli aveva anche chiuso le porte del Premio Nobel. In Svizzera Nabokov si riunì al paradiso russo della sua infanzia. I laghi, le montagne, la sua adorata Vera (sua fedele collaboratrice) e il figlio Dmitri, che all’epoca viveva a Milano, erano tutto ciò di cui egli aveva bisogno per dedicarsi alle sue passioni: scrivere e collezionare farfalle.
I tesori dell’infanzia
In quell’intervista, Aldem Whitman chiese a Nabokov se la sua vita assomigliasse vagamente a quello che si era immaginato quando era giovane. “La mia vita fino a questo momento è stata ancora più splendida delle ambizioni che nutrivo nell’infanzia e nella giovinezza” rispose lo scrittore che poi aggiunse: “Nel primo decennio del nostro secolo, durante le gite in Europa meridionale con la mia famiglia a occhi aperti nel letto ho più volte immaginato come sarebbe stato diventare un esule che prova nostalgia per una Russia lontana, triste e avida sotto gli eucalipti di un resort esotico. Lenin e la sua polizia hanno contribuito positivamente a realizzare quella mia fantasia. All’età di dodici anni il sogno che accarezzavo di più era un viaggio sulla catena del Karakorum a caccia di farfalle. Ventidue anni dopo, con successo ho mandato il mio alter ego, nella parte del padre del mio protagonista (vedi il mio romanzo ‘Il Dono’), a esplorare con il retino in mano le montagne dell’Asia centrale. A quindici anni immaginavo che a 70 sarei stato uno scrittore di fama mondiale, con una criniera di capelli bianchi ondulati. Oggi sono più o meno calvo”.
Nabokov avrebbe preservato come un tesoro la felicità vissuta nella prima infanzia, inserendola più e più volte nella realtà speculare dei suoi romanzi. In essi noi scopriamo le semplici delizie della vita che sua madre Elena Ivanovna gli insegnò ad apprezzare, come se temesse che quell’Eden un giorno o l’altro dovesse scomparire, come poi di fatto fece. All’età di vent’anni, Vladimir lasciò la Russia e disse addio al suo primo amore. Il frettoloso esilio e la perdita della persona amata divennero una ferita profonda e a uno stesso tempo il leitmotiv delle sue opere. Nel 1919, parte della famiglia Nabokov si stabilì a Berlino, mentre Vladimir e suo fratello Sergei si recarono in Inghilterra per studiare letteratura russa e francese all’università di Cambridge. Vladimir Dmitrievich Nabokov, il loro padre, era un intellettuale e uno dei fondatori del Partito democratico costituzionale che nel 1917 si oppose alla Rivoluzione. Nabokov Sr. diresse un giornale liberale, Rul (Il timone) nel quale Nabokov figlio pubblicò le sue poesie e alcuni racconti.
Nell’esilio di Berlino, e più tardi a Parigi, Nabokov Jr. scrisse otto romanzi in russo ambientati nella città tedesca. “Maria”, pubblicato nel 1926, fu l’unica eccezione. Vladimir scriveva sempre e guadagnò un po’ di soldi come comparsa in un film, come raccattapalle, e scrivendo un libro di grammatica russa: nel primo esercizio compare la seguente frase: “Signora, il medico è arrivato. Ecco la banana”. Il solitario cortese Vladimir Nabokov, il maggiore di cinque fratelli, era nato in una famiglia agiata di San Pietroburgo lo stesso giorno di Shakespeare, il 23 aprile 1899. Ebbe alcune governanti straniere, che col passare del tempo furono sostituite da istitutori maschi. I Nabokov trascorrevano l’estate a Vyra, a pochi chilometri da Pietroburgo, in una vasta casa con numerosi bagni. In “Parla, ricordo” Vladimir racconta che scriveva poesie nascosto e chiuso in bagno. Quelle poesie furono lette dalla poetessa Zinaida Gippius che tramite il padre di Nabokov gli fece pervenire un messaggio terribile: “Dica a suo figlio che non sarà mai uno scrittore”.
I mille volti di Lolita |
La famiglia Nabokov trascorreva l’autunno sulle spiagge del Mar Adriatico, a Nizza o Biarritz, e l’inverno nella sua casa di San Pietroburgo. Essendo il primogenito, Vladimir era un bambino viziato: suo padre gli insegnò a tirare di scherma, a giocare a tennis e a praticare la boxe. Vladimir ereditò dal padre anche un vivo interesse per gli scacchi e, soprattutto, l’amore per la letteratura e i lepidotteri. Ancora in pantaloncini corti Vladimir aveva già imparato tutti i nomi e i verbi in tre lingue (inglese, russo e francese), parole con le quali da scrittore avrebbe giocato a modo suo per costruire ambiziose “invenzioni perfette” che ammaliano ancora il lettore che cade nel loro incantesimo. Il suo carattere individualista era incompatibile con qualsiasi gruppo, perfino durante gli anni in cui frequentò la scuola. Il bambino che scriveva temi inframezzati da “parole straniere” e non prendeva parte ai giochi non avrebbe potuto affascinare i suoi compagni di scuola o i suoi insegnanti presso la scuola per l’élite Tenishev.
All’età di undici anni, Vladimir Nabokov si rese conto che per lui sarebbe stato difficile “inserirsi in qualsiasi ambiente”, ma invece di farne un dramma, trasformò il suo isolamento in un valore positivo. Da adulto, continuò a essere un “solitario cortese”, con pochissimi contatti con gli altri scrittori. Non sapremo mai quanto di vero ci fu dietro l’orgoglio col quale si accanì contro i giornalisti. Chiedeva loro di spedirgli le domande per le interviste per iscritto, perché avrebbe risposto nello stesso modo, e in più imponeva come dovessero scrivere il testo finale, obbligando i suoi intervistatori a chiedergli l’autorizzazione prima di pubblicarli. Vivian Darkbloom (questo era il suo anagramma) promise che non si sarebbe preoccupato delle critiche, ma i suoi scatti d’ira si potevano sentire dalla cima delle montagne svizzere quando qualche critico non interpretava “correttamente” il suo lavoro.
Risate che sfidano il dolore
Riservato e perfino ricalcitrante con i giornalisti, Nabokov era molto eloquente e diretto durante le sue conferenze sulla letteratura. Negli Stati Uniti, gli universitari della Wellesley e della Cornell University ascoltarono affascinati e deliziati le pungenti osservazioni del professor Nabokov sulle opere di Dostoevskij, Thomas Mann, Hemingway, Faulkner e Pasternak. A essere sinceri, l’autore di “Ada o ardore” e “Fuoco pallido” adorò Tolstoj, Cechov, Bely, Proust, Joyce e Kafka. Ci sarebbe molto da raccontare su questo straordinario personaggio, che raggiunse i 78 anni d’età indossando ancora i calzoni corti, che sapeva a memoria interi dialoghi dei fratelli Marx, che disprezzava Freud, che non guidava, e che scriveva in piedi e a matita. Ci sarebbe molto da raccontare su una persona che per aperitivo prendeva un bicchiere di Tío Pepe (mai la vodka) e alcune mandorle.
Di pomeriggio amava giocare a scacchi e a Scarabeo con Vera. Il suo più grande dilemma alle ventitré era capire se fosse bnn o meno il caso di prendere un sonnifero. Ci sono volumi interi scritti su questo ragazzo cresciuto che parlava con l’insicurezza di un bambino. Ma vi invito a leggere i suoi romanzi e a ridere con lui. Nabokov dette sempre la priorità alle risate rispetto al dolore. Voleva che i suoi lettori si esercitassero ridendo, con quelle risate che nascono dalla pancia e forniscono ossigeno al cervello. E anche se la tristezza non si può evitare, per Vladimir Nabokov la vita è “una fetta di pane fresco con burro e miele di montagna”, che deve essere goduta. E così egli fece fino alla sua fine, che arrivò il 2 luglio 1977.
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