Un momento della produzione del film (Foto: RIA Novosti)
Sul finire degli anni '80 le crepe dell'impero erano già visibili. Di lì a poco l'Urss sarebbe letteralmente scomparsa, quasi da un giorno all'altro, inghiottita dalle proprie contraddizioni. Ed è da quelle crepe che, sugli schermi delle sale cinematografiche sovietiche, iniziarono ad arrivare immagini di appartamenti sporchi, di province alienate, di strade urbane squallide e rese violente dalla notte. Di birrerie, di bar, di famiglie sgretolate dall'alcool e dal consumo di droghe. L'abiezione fisica e morale. Il cinema invaso dagli incubi.
I registi alle prese con un solo obiettivo: svelare la morale occulta di un Paese che aveva costruito la propria immagine semplicemente cancellando la realtà. Cancellando cioè la miseria, il freddo, le menzogne che servivano a tenere in vita un sistema sociale oramai spento.
Chernukha, così è stata definita la black wave del cinema russo nato, paradossalmente, dalla Perestrojka, cioè da un tentativo di salvare il Paese. Perché se di Glasnost si trattava, tanto valeva essere trasparenti fino in fondo e rendere pubblico, cinematografico, il dolore e la la stanchezza che attraversano l'intera nazione. Una decina di film, molti documentari. Il mainstream che, per una volta, coincide in modo completo con le produzioni indipendenti. E un'accoglienza all'estero che non era quasi mai stata riservata ai prodotti dell'industria cinematografica sovietica.
Tra i film che delimitano l'estetica della Chernukha, Litte Vera di Vasil Pichul, celebre per contenere la prima scena di sesso della storia del cinema russo, è un momento essenziale. Dove Vera è sì la protagonista, adolescente, di un film che non è ne più ne meno che un viaggio verso gli inferi contenuti in ogni angolo delle città di provincia. Ma è anche la Fede: quella speranza in un mondo migliore resa piccola, indebolita, dal regime. La vita di Vera come metafora di un sogno collettivo che va in frantumi.
Siamo in un piccolo Paese, mai meglio definito. Vera vive con i genitori. Problemi scolastici, un silenzio ostinato che manda su tutte le furie i parenti, una vita sociale fatta di notti dove, tra hard rock, alcol a buon mercato e tentativi di emulare la moda occidentale, la violenza è sempre alle porte. In una di queste notti nere, Vera incontra Sergey. S'innamorano, o per lo meno così si dicono l'un l'altro.
Ma l'atmosfera cinica contagia tutto: i gesti, le parole, le espressioni del corpo. Niente sembra saldo, reale, duraturo. Neanche i sentimenti dei due. Vera annuncia una gravidanza alla famiglia e Sergey va a vivere nella sua stanza. L'atmosfera resta sospesa. Fino alla fine, mentre i giorni continuano a consumarsi come sempre, tra le crisi del padre alcolizzato e paranoico nei confronti dei vicini di casa - “chissà che penseranno” - e la stanca resistenza della madre che continua a progettare una vita “normale” per se e per la famiglia.
Un sistema di valori che si sgretola per lasciare posto a niente di definito. Una rimozione della morale pubblica che lascia emergere solo il caos denso del nichilismo sociale. Sta qui tutta l'operazione estetica dei black waver russi: una reazione all'idealismo tendente al melodramma che aveva ispirato gli ultimi decenni della cinematografia ufficiale. Una reazione fatta con il solo materiale a disposizione: la realtà nuda e cruda, i suoi conflitti, il suo essere impermeabile a ogni semplificazione, soprattutto se questa semplificazione era dettata dal tentativo di costruire un'omologazione sociale sui cui fondare un potere politico che pensava se stesso come eterno. Un'avanguardia che, nonostante tutto, non dimentica la lezione stilistica della generazione precedente: la furia espressiva, le macchine da presa mosse in modo vorticoso, i ritmi sincopati. Tutto al servizio di storie come quella di Vera: la prima adolescente ribelle del cinema russo.
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