Nel 1930 il Politburo capeggiato da Stalin respinse, per la sorpresa di molti, in modo categorico i progetti di latinizzazione dell'alfabeto russo (Foto: Alamy / Legion Media)
I dibattiti sulla lingua su cui si sarebbe dovuta fondare la letteratura russa ebbero inizio ancora nei tempi in cui Pietro I introdusse per i suoi sudditi un nuovo alfabeto civico al posto di quello ecclesiastico. Molti studiosi occidentalisti ritenevano che lo zar riformatore avesse intenzione di compiere un adattamento della vita russa alla maniera europea attraverso il passaggio della lingua russa all’alfabeto latino. Le cose però non andarono così.
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Un progetto di latinizzazione della lingua russa fu riproposto dopo la Rivoluzione d’ottobre del 1917, dato che rispondeva perfettamente alla concezione di Vladimir Lenin e Lev Trotsky sulla creazione e importazione di una cultura proletaria universale nel discorso dell’imminente rivoluzione mondiale.
Secondo il pensiero del Commissario del popolo all’istruzione dell’Unione Sovietica, Anatolij Lunacharskij, l’alfabeto latino avrebbe semplificato notevolmente lo studio della lingua russa per “i proletari di tutto il mondo”: “L’esigenza o la coscienza della necessità di semplificare l’assurdo alfabeto prerivoluzionario, appesantito da ogni anacronismo storico, è nata a poco a poco in tutti gli uomini di cultura”.
D’altro canto Lenin non aveva fretta di introdurre l’alfabeto latino nella lingua russa. “Se iniziamo ad applicare in fretta e furia un nuovo alfabeto o introduciamo di corsa il latino, che, però, dovremmo forzatamente prima adattare al nostro, possiamo commettere degli errori esponendo inutilmente il fianco perché la critica ne approfitti e parli della nostra barbarie ecc… Non dubito che arriverà il momento per la latinizzazione della scrittura russa, ma agire frettolosamente ora sarebbe imprudente”, rispondeva Lenin a Lunacharskij in una lettera della corrispondenza privata.
Nonostante ciò il Commissariato del popolo all’istruzione con a capo Lunacharskij decise di attuare un’importante riforma: l’alfabeto russo prerivoluzionario venne ripulito da una serie di lettere “superflue” (per esempio fu tolta la lettera “i”, un doppione della “и”, e la lettera “ѣ”, che bissava la lettera “e”, la lettera “Ѳ”, che duplicava la “ф”), venne ridotto l’uso del segno “ъ”, che prima della Rivoluzione si scriveva obbligatoriamente alla fine delle parole che terminavano in consonante. Si consideri che per attuare la riforma i bolscevichi utilizzarono i progetti elaborati ancora sotto Nicola II nell’Accademia imperiale delle scienze nel 1904, 1912 e 1917.
I bolscevichi e i linguisti ideologicamente schierati, comunque, non abbandonarono l’idea della latinizzazione. Il potere sovietico centrale e locale si adoperava per attirare il maggior numero di sostenitori e pertanto cercava di dimostrare con ogni mezzo possibile la disponibilità a lasciare ai popoli della Russia massima libertà, spingendosi fino alla scelta dell’alfabeto.
L’alfabeto russo, poco adatto “ai movimenti dell’occhio e della mano dell’uomo contemporaneo”, venne dichiarato “un anacronismo della grafia di classe dei secoli XVIII e XIX dei proprietari feudali e della borghesia” e “la grafia dell’oppressione assolutista, della propaganda da missionari, dello sciovinismo nazionale grande russo”.
Inizialmente si pensava di liberare dall’alfabeto russo – “veicolo della russificazione e dell’oppressione nazionale” da parte dello “zarismo” e dell’ortodossia – le popolazioni non slave dell’ex impero che già avevano una tradizione scritta in cirillico (per esempio i komi, i careli e altri): “Il passaggio all’alfabeto latino libererà una volta per tutte le masse lavoratrici da qualsiasi influsso della produzione scritta prerivoluzionaria di contenuto nazional-borghese e religioso”, si leggeva nel protocollo della riunione di una delle commissioni per la latinizzazione.
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Al contempo, si progettava di introdurre l’alfabeto latino anche nelle lingue di tutti i popoli musulmani dell’Urss, utilizzando le lettere arabe (allo scopo di liquidare “l’istruzione del Corano” e “le conseguenze della formazione religiosa islamica”), oltre che nelle lingue con un proprio sistema alfabetico: georgiano, armeno, calmucco, buriato ecc…
Dopo la fine della guerra civile nel 1922, in Unione Sovietica, venne avviata un’edificazione linguistica di dimensioni uniche (“nativizzazione”), che proclamava il diritto di ciascun popolo, anche il più piccolo, a impiegare la propria lingua in tutte le sfere della nuova vita socialista. Il nuovo potere stanziò enormi finanziamenti per la creazione di alfabeti, dizionari, manuali e per la preparazione degli insegnanti: anche le più piccole unità territoriali, i selsovet (con un minimo di 500 abitanti!), avevano infatti ricevuto la piena autonomia linguistica; ciò portò alla comparsa sulla carta geografica dell’Urss di una moltitudine di fantasiose formazioni linguistiche nazionali (per esempio nel 1931 nel territorio della Repubblica Socialista Sovietica dell’Ucraina oltre ai selsovet ucraini, russi, europei ne esistevano più di 100 tedeschi, 13 cechi e uno svedese).
In definitiva, si crearono in tempi strettissimi alfabeti unificati in caratteri latini per decine di popolazioni sovietiche analfabete o semianalfabete, che, in breve e senza possibilità d’appello, si radicarono nel territorio; la burocrazia, i periodici e i libri venivano tradotti nei nuovi alfabeti. All’inizio degli anni Trenta nei popoli musulmani dell’Urss l’alfabeto latino scacciò del tutto quello arabo, molti alfabeti cirillici dei popoli non slavi e le forme di scrittura tradizionali dei popoli mongoli (calmucchi e buriati). Tra gli esiti positivi degli sforzi intrapresi si può annoverare l’eliminazione in tempi record dell’analfabetismo e la diffusione di un’istruzione primaria tra tutti i popoli dell’Unione Sovietica.
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Ben presto, però, la situazione iniziò a cambiare radicalmente e in modo impetuoso. Stalin, che aveva acquisito sempre maggiore forza nei circoli del partito e concentrato nelle sue mani tutto il potere, aveva una propria visione dello sviluppo dello Stato sovietico, diverso tanto dalle idee del condottiero della rivoluzione Lenin, quanto dalle teorie dei futuri avversari “di sinistra” di Stalin: Lev Trotsky, Lev Kamenev, Grigorij Zinovev.
Stalin non provava alcun entusiasmo all’idea di importare la rivoluzione, ritenendo più realistica la costruzione di un potente Stato socialista su un territorio i cui confini combaciassero il più possibile con quelli dell’ex impero. È quindi logico che, a partire dagli anni Trenta, a poco a poco, in Urss, iniziò una parziale restaurazione di molti fenomeni, norme e relazioni sociali, approvati nella Russia prerivoluzionaria; a sua volta, molte novità portate dalla rivoluzione vennero bollate come “forzature sinistrorse” e “deviazioni trotskiste”. Anche la crisi mondiale dettava le sue condizioni: bisognava tagliare le enormi spese per la ristampa nei nuovi alfabeti della vecchia eredità culturale e ridurre i costi per le continue riforme.
Nel gennaio del 1930 la Commissione per la latinizzazione sotto la guida del professor Nikolaj Yakovlev preparò tre progetti definitivi di latinizzazione della lingua russa, ritenuta ai tempi del Commissario del popolo all’istruzione Lunacharskij (1917-1929) “inevitabile”.
Tuttavia il Politburo capeggiato da Stalin respinse, per la sorpresa di molti, in modo categorico i progetti e vietò di sperperare in futuro forze e mezzi per queste iniziative. In alcuni interventi pubblici negli anni a seguire Stalin sottolineò l’importanza dello studio della lingua russa per la futura edificazione del socialismo dell’Urss. Nel 1936, invece, le lingue latinizzate dell’Unione Sovietica iniziarono a essere ritradotte in massa in cirillico allo scopo di avvicinare le lingue dei popoli dell’Unione Sovietica alla lingua russa. Di contro, gli alfabeti con caratteri latini vennero dichiarati “non idonei allo spirito dei tempi” o persino “nocivi”. L’autonomia linguistica dopo aver conosciuto un boom a più livelli nei primi tempi dell’Unione Sovietica, fu velocemente e ovunque abolita, lasciando il posto alla lingua russa “ristabilita nei diritti”.
Il 13 marzo del 1938 uscì la delibera del Comitato Centrale del Partito Comunista (bolscevico) “Sullo studio obbligatorio della lingua russa nelle scuole delle repubbliche e degli oblast nazionali”. I rappresentanti dell’intellighenzia dei popoli dell’Urss, che resistettero al ritorno del cirillico e al rafforzamento del ruolo della lingua russa subirono repressioni.
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Il processo di esaltazione della lingua russa e del popolo, avvenuta negli anni Trenta sotto Stalin, stava prendendo forza. Negli anni della Seconda Guerra Mondiale l’importanza della conoscenza del russo per tutti i cittadini sovietici divenne una verità intoccabile.
Alla fine del conflitto, nel 1945, uscì il celebre libro del linguista Vinogradov, “La grande lingua russa”, in cui l’autore rilevava – in perfetto spirito pubblicistico imperiale e prerivoluzionario – che “l’importanza e la potenza della lingua russa sono noti a tutti. Tale riconoscimento è entrato profondamente nella coscienza di tutti i popoli, di tutta l’umanità”.
Alla fine degli anni Quaranta la lingua russa raggiunse un posto sostanzialmente nuovo nel mondo e senza precedenti nella sua storia: divenne, infatti, una delle lingue di lavoro dell’Onu e quindi del Consiglio di Mutua Assistenza Economica, oltre a essere lingua di studio obbligatorio nelle scuole e negli istituti di tutti i Paesi socialisti.
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