Lo scrittore russo Vladimir Makanin (Foto: Itar-Tass)
Come molte persone, lo scrittore Vladimir Makanin ha la fortuna di possedere più di un’abitazione. Tra le sue residenze vi è una tranquilla casa nei pressi di Rostov-sul-Don, con tanto di giardino, altalene e un’accogliente veranda: il luogo ideale per discutere di letteratura.
Lei è un matematico. Ritiene che la capacità di pensare con metodo sia di aiuto a uno scrittore?
Vladimir Makanin è nato nel 1937 a Orsk, negli Urali. Dopo essersi laureato in Meccanica e Matematica all’Università Statale di Mosca, ha iniziato a insegnare. Il suo primo romanzo, “Linea diretta”, è stato pubblicato nel 1965. Dopo aver ricevuto nel 1999 il Premio statale della Russia, Makanin ha vinto il Premio Pushkin, assegnato dalla fondazione tedesca Toepfer, il premio Città di Penne (Italia), il Booker Prize russo e il premio “Big Book”. Nel 2012 Makanin ha ricevuto il Premio Europeo per la letteratura
La matematica è bella, è addirittura perfezione, anche se la trovo un po’ fredda. Sono stato un allievo diligente e ho conseguito ottimi risultati, ma come materia non mi ha mai toccato il cuore. La mia personalità non si è formata all’università, ma negli anni della scuola e durante le accanite partite di scacchi che già dalla quinta elementare disputavo con gli adulti. A due o tre mosse dalla sconfitta i miei avversari iniziavano a sudare, a dimenarsi sulla sedia e a fumare (a quei tempi era permesso fumare durante gli incontri). Intanto il ragazzino, ovvero io, sedeva tranquillo davanti a loro a godersi la partita; è quella particolare sensazione che si prova quando si affronta con determinazione una sfida, cosa che nella vita mi è tornata molto utile. Mi riferisco in particolare all’impegno che la scrittura di un testo richiede e al suo casuale, quasi giocoso, desiderio di sconfiggermi. Adesso, non essendo più un ragazzo, quello che suda, si dimena e fuma sono io. Gli scacchi ti insegnano la lotta, il pensiero conciso, la filosofia.
Basta pensare a quel famoso e incisivo concetto secondo cui la minaccia è più efficace della sua effettiva implementazione?
Basta che un giocatore eserciti qualche pressione, che lasci intravedere una minaccia, e il suo opponente commette un errore.
Le sue prime opere hanno avuto un successo immediato, anche se lei sembra averle scritte con grande facilità. Questa apparente facilità nasconde forse un grande impegno?
Torno a usare una metafora scacchistica. Alekhine, o forse Lasker, disse che “il vincitore è colui che vince con il nero”. Vincere con il bianco significa scrivere come gli altri e, quindi, ammassare punti in rapida successione. L’atto di scrivere una novella o un romanzo senza precedenti, basati su personaggi nuovi, è paragonabile all’atto di chi gioca una partita con il nero. In una simile partita di solito non bisogna mai pensare alla vittoria, ostinandosi a conseguirla in breve tempo. Occorre invece crescere insieme al progredire della partita, così che a vincere non siamo noi, ma qualcosa di magico, un “quid” che opera sulla scacchiera. Quando sei nero un pareggio non basta. Questo tipo di gioco instilla in noi i tratti occulti di una particolare forma di combattimento. Un combattimento umano, ma senza regole reali.
Lei scrive le sue storie seguendo un ordine, dall’inizio alla fine?
No, scrivo per sezioni. Scrivo le scene chiave in ordine sparso, iniziando talvolta dalla fine. È un po’ come trovarsi in cucina: per preparare qualcosa c’è bisogno di qualche buon taglio di carne.
Da giovane leggeva molto?
Allora non c’erano molti libri, ma io sono stato ugualmente fortunato perché mia madre era un’insegnante. Quando avevo quindici o sedici anni mi diede da leggere tre autori che avevano smesso di studiare: Bunin, Kuprin e Leonid Andreyev. Per me la lettura non era un ruscello, ma piuttosto un fiume in piena. All’università ho amato moltissimo “I tre camerati” di Remarque. Ho letto tutte le opere di Shakespeare, rilegate in un’edizione magnifica che in seguito mi rubarono. Forse è finita dritta dritta in una libreria di seconda mano; gli studenti erano squattrinati, e così andavano le cose. Naturalmente quel ricordo non mi rattrista più, anche se mi piacerebbe tanto poter tenere quel libro in mano ancora una volta, perché conteneva tanti miei appunti.
I suoi romanzi non mancano mai di generare interesse e dibattiti. Crede che sia possibile prevedere il successo di un libro?
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Esistono due procedimenti, tra loro distinti: la creazione e il consumo. Uno scrittore è responsabile unicamente del primo. Può scrivere un libro, ma non ha alcun controllo sul modo in cui questo sarà accolto, che è al di là del suo campo di influenza. La società consuma ciò che produciamo e può osannarti domani per poi farti a pezzi un mese dopo. O riconoscerti del meriti dopo che sei morto, o forse mai. Tutto questo però non possiamo controllarlo; noi possiamo solo creare.
Nell’introduzione all’edizione spagnola di “Asan” si legge che “Makanin è riuscito a guardare al mondo oltre il livello della moralità”. Cosa ne pensa?
Pur non sottovalutando la moralità, io non avrei mai la presunzione di essere in grado di stabilire che una persona è meglio di un'altra. È la vita. Dicono che in “Asan” io sia riuscito a guardare al fenomeno della guerra con occhi diversi. Non è ciò che avevo in mente di fare, ma è accaduto. Forse non avrei saputo scriverlo diversamente. Non avrei saputo descrivere una guerra di trincea e, infatti, il libro non tratta della guerra di trincea, ma piuttosto di una guerra fatta di saccheggi, di volgarità, di denaro. E questo è stato il risultato. La prosa non va ricercata tra le descrizioni delle sparatorie, ma piuttosto laddove la vita interiore viene sconvolta.
Oggi sembra di vivere in clima del tutto nuovo. Riesce già a capire di cosa si tratta esattamente?
È proprio vero: viviamo in una nuova epoca e coglierla non è facile, nemmeno se scrivi un racconto e subito dopo ne scrivi altri due o tre. Non mi intendo molto di politica e non prevedo un futuro apocalittico.
In cosa trova rifugio? Nella bellezza, forse?
La bellezza prova sempre a salvarci, ci richiama costantemente a sé. Uno segue la propria strada, poi, all’improvviso, qualcosa lo obbliga a fermarsi e a rendersi conto che conduce una vita da maiale. Ed è allora che l’animo viene scosso in profondità da una bellezza pervasiva e dai suoi insegnamenti. E poi? Capiamo finalmente tutto? Purtroppo no: dopo un mese si torna a vivere come prima, ci si dimentica di tutto e dobbiamo ricominciare da capo. Intanto, però, qualche bagliore di luce si è insinuato in noi.
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