Il pianoforte in Russia, un gioco da maestri

Una carrellata dei più celebri interpreti del Paese, con le loro manie e stravaganze

Stuart Isacoff, musicologo, pianista e compositore, fondatore e direttore della rivista Piano Today, racconta la storia della musica attraverso uno dei suoi strumenti: il pianoforte, che pur non essendo il più antico, conquistò in fretta una posizione privilegiata. Una carrellata dei più celebri interpreti che lo suonarono, con le loro manie e stravaganze. E, naturalmente, il peso che ha avuto, e ha, tuttora, la scuola russa.

Anton Rubinstein deliziava il pubblico più entusiasta con concerti della durata di due ore e mezza. L’incontrollabile Vladimir de Pachmann non si conteneva e al termine delle esibizioni si lanciava in lunghi sermoni direttamente dal seggiolino. Sergei Rachmaninov cadde in una depressione così profonda dopo il fallimento della sua prima sinfonia che si affidò alle mani di un ipnotizzatore, a cui poi dedicò il suo secondo famoso concerto per pianoforte.

Vladimir Horowitz faceva letteralmente fumare i tasti, vista la rapidità indiavolata con cui muoveva le dita sulla tastiera. Sviatoslav Richter non sceglieva mai il piano, come se ciò dipendesse dal destino, e a volte si esibiva persino al buio. Questi e altri aneddoti sul mondo del piano e dei pianisti russi si possono leggere nel libro “Storia naturale del pianoforte” di Stuart Isacoff. Con lui abbiamo parlato della vita di questo strumento musicale nel Paese slavo.

Quando parla di Anton Rubinstein, il primo pianista russo a mettere piede sul suolo americano, dice che lasciava il pubblico attonito, nonostante i colleghi lo criticassero per non eseguire correttamente le note.

Credo che il pubblico abbia sempre condiviso l’idea che una buona interpretazione non dipenda esclusivamente dalla precisione con cui si eseguono tutte le note. In passato, la maggior parte dei maestri di pianoforte non si preoccupava degli errori. Ora la situazione è leggermente diversa per via delle registrazioni: il pubblico si aspetta la stessa perfezione di quando ascolta un CD, perché è ormai abituato ad ascoltare musica che è stata prima editata in uno studio di registrazione. È qualcosa di negativo. La precisione è importante, ma non quando diventa opprimente per l’interprete, al punto tale da annullare lo spirito di libertà che richiede l’autentica espressione musicale.

Continuando con Rubinstein, i suoi concerti negli Stati Uniti suscitavano grandi passioni, alla pari di una star del pop dei giorni nostri.

Sì, lo stesso accadeva anche con Liszt e, inutile dirlo, con Vladimir Horowitz. Ma oggi non esistono stelle simili in grado di suscitare la stessa reazione nel pubblico. L’unico esempio che mi viene in mente è Lang Lang, un autentico eroe nazionale in Cina. Ma in futuro chi lo sa.

Sono molto divertenti gli aneddoti che racconta sui commenti che faceva Vladimir de Pachmann davanti al pubblico. Ritiene che i concerti dovrebbero avere un formato meno rigido?

Non si dovrebbe mai alzare un muro di vetro tra il pianista e lo spettatore. La ragione per cui le sale da concerto, oggi, sembrano chiese, e non in senso positivo, è che la musica classica è caduta nella trappola di trattare sia le composizioni che i musicisti come oggetti da museo, che vanno contemplati all’interno di una teca di vetro. Il pubblico deve sentire la scintilla, l’emozione e l’umanità dei pianisti. È l’unico motivo per cui vale la pena preservare la musica.

Ci sono delle mode anche per quanto riguarda le interpretazioni? Si predilige un suono piuttosto che un altro a seconda dell’epoca? A noi ora, per esempio, piacerebbe il modo in cui suonava un pianista sessanta anni fa?

In tutti i tipi di arte, gli stili sono in continua evoluzione. Un secolo fa i musicisti suonavano con maggiore libertà e avevano meno paura di sbagliare. Venti anni fa la gente si preoccupava molto della correttezza. Ora credo che si stia raggiungendo un equilibrio, nonostante si tenda ancora molto a emulare la perfezione delle registrazioni. Ma ci sarà sempre qualcuno a cui interessa di più essere “corretto” che musicale. Una volta, durante l’esecuzione di un brano del 1732 composto da Lodovico Giustini a Palm Beach, una donna del pubblico, insegnante di pianoforte, si lamentò perché stavo utilizzando il pedale. Era convinta che non andasse mai utilizzato per la musica di quell’epoca e mi trattò come se avessi infranto un comandamento religioso. La verità è che quando si suona un pianoforte costruito in quegli anni, anche senza pedali, il suono continua a risuonare persino dopo aver sollevato il dito dal tasto. La gente crea molti pregiudizi stupidi e crede di avere l’autorità per costringere gli altri a seguirli.

Quando descrive i tour dei pianisti russi, sembra che stia parlando di artisti circensi, sempre pronti a superare ogni limite pur di impressionare il pubblico. Del resto era il modo per firmare contratti per nuovi tour.

I pianisti sono sempre stati qualcosa di più che dei semplici tecnici. L’unico modo per ascoltare musica senza “aggiunte” è con un CD o un iPod. Quando i pianisti suonano dal vivo devono sedurre il pubblico e, a volte, ciò significa intrattenerlo. Così faceva Liszt. O Beethoven, con la forza della sua personalità. Anton Rubinstein faceva lo stesso con il suo grande calore e sorriso inconfondibile. Ci sono pianisti che preferiscono rimanere “puri” e non fanno nulla per entrare in contatto con il pubblico. Ma anche questa attitudine può essere interpretata come una dichiarazione “extra-musicale”.

Rachmaninov fu attaccato per avere troppo successo. Cosa ci dice di lui?

Rachmaninov era un vero e proprio genio. Le sue composizioni sono straordinarie, non solo per il lirismo e la bellezza, ma anche per la sua padronanza tecnica. Le sue interpretazioni sono tra le migliori che io possa ricordare, traboccanti di personalità e virtuosismo. Chi lo attaccò, dicendo che “suonava in maniera gradevole” o considerandolo “musica leggera”, non sapeva semplicemente di che cosa stava parlando.

È ancora possibile, ascoltando un pianista, intuire da quale città e scuola provenga?

Stiamo assistendo a una certa omogeneizzazione. Il mondo sta diventando sempre più piccolo. È difficile distinguere, come prima, tra le varie scuole di interpretazione. Ma ci saranno sempre differenze fra un artista e l’altro, e nel modo di etichettarli. Penso che si possa ancora dire, come prima, quello “ha uno stile tipico della scuola di Mosca” o quello “suona come la scuola di San Pietroburgo”.

Richter era un caso a parte?

Richter era, senza dubbio, una persona molto coerente con se stessa. Faceva le cose a modo suo e non gli interessava il parere della gente. Era un artista di straordinario talento, ma anche lui aveva il suo modo personale di rendere i concerti un vero e proprio spettacolo. Come quando, ad esempio, ordinava che venissero spente le luci e suonava al buio.

Sono i silenzi a fare un genio?

I grandi maestri eccellono in tutto: comprensione della struttura musicale, orecchio, tecnica ed espressione. Sì, il silenzio è importante quanto il suono. È una parte di ciò che fa sì che un brano musicale diventi un’opera d’arte.

Durante la Guerra Fredda, la rivalità tra i pianisti statunitensi e sovietici era come quella tra i giocatori di scacchi?

Sì, era molto affine. Le grandi partite tra i maestri di scacchi dei due Paesi avevano un impatto molto simile ai concorsi di pianoforte. Ogni fazione era fiera dei propri rappresentanti e voleva mostrare al mondo il loro eccellente livello. Vi era una grande destrezza nel gioco. Le qualità che permisero a Bobby Fischer di vincere erano le stesse che possedeva anche Van Cliburn: immaginazione, senso della bellezza, doti tecniche e il tipo di talento che fiorisce solo quando si è liberi da vincoli.

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