Lo scrittore russo Mikhail Shishkin pensa che quella parte dell'umanità per cui la lettura è un'esigenza vitale stia crescendo (Foto: Itar-Tass)
A tu per tu con lo scrittore russo Mikhail Shishkin, classe 1961, che dal 1995 vive a Zurigo.
Lei
vive ormai da 18 anni fuori della Russia e l'azione dei suoi romanzi spesso non
si svolge in Russia. Che cosa rappresenta la Russia per lei? Quanto sente il
suo legame con il Paese?
Viviamo nel XXI secolo, i confini sono stati aboliti da tempo. Prima
c'era l'emigrazione, l'impossibilità di tornare in patria. Io semplicemente
vivo tra Mosca, la Svizzera e Berlino. A Mosca ci vado regolarmente, seguo
tutto quello che succede, partecipo alle manifestazioni dell'opposizione;
nel 2012 ho scritto dei reportage dalla Russia per una rivista
svizzera. Ma anche se vivessi in
Antartide, sarei comunque uno scrittore russo e scriverei i miei libri russi. Se
sei nato in Russia e vi hai vissuto metà della tua vita, vi hai cresciuto i
tuoi figli e seppellito i tuoi genitori, non hai bisogno di alcun particolare legame con la Russia: il Paese è dentro di te. Uno scrittore russo
non ha bisogno di alcun particolare legame con la lingua: è lui stesso la lingua
russa. Per uno scrittore la patria è il
luogo in cui è nato e si è formato, ma poi bisogna vivere dappertutto.
Lei pubblica solo un romanzo ogni cinque
anni, vive all'estero da molto tempo, eppure è uno degli scrittori più
conosciuti e amati in Russia; tutti i suoi romanzi hanno vinto almeno uno dei
principali premi letterari russi: il Bolshaja kniga, il Russian Booker, il
premio Natsionalnyj Bestseller. Quanto conta per lei il riconoscimento che ha
ottenuto in Russia?
Ci si può forse porre l'obiettivo di vincere tutti i premi e di rimanere al
centro della vita letteraria? Certo che no. Porsi obiettivi del genere significa
cercare consapevolmente di piacere a qualcuno. È una strada che non porta da
nessuna parte. Fin dall'inizio ho deciso tra me e me che non avrei accettato
alcun compromesso. Né con gli editori, né con i lettori. Avrei scritto solo per
il mio lettore ideale. È un'impostazione che aiuta molto nel lavoro. Anzi, è
l'unica impostazione che ti permette di lavorare. Solo così si può scrivere un
testo personale e autentico. Però si rischia di restare senza editore e anche
senza libro, a tu per tu con il proprio lettore ideale riflesso nello specchio.
Ho affrontato questo rischio, perché fare altrimenti non avrebbe avuto senso
per me. E quando i miei libri hanno cominciato a essere pubblicati in Russia e
a vincere dei premi, quando ho cominciato ad avere dei lettori, ho capito che
decidendo di non scendere ad alcun compromesso avevo fatto la cosa giusta. Anche
quando partecipo a degli incontri in Russia, e per me sono particolarmente
importanti gli incontri in provincia, con i veri lettori russi, con
l'intellighenzia di provincia (insegnanti, bibliotecari, medici), mi rendo
conto ogni volta che proprio loro sono i miei lettori ideali, quelli per cui ho
sempre scritto.
Si sente il continuatore di una linea della
tradizione letteraria russa in particolare?
Per me l'essenza della tradizione letteraria russa consiste nel fatto che la
letteratura non deve intrattenere, bensì porre delle domande alle quali,
probabilmente, non esiste una risposta. Uno scrittore che calcola preventivamente il proprio successo di
pubblico e si adatta ai gusti di qualcuno è uno schiavo. Per me la lettura e la
scrittura possono essere paragonate a una trasfusione di sangue. Condivido con
il lettore la cosa più essenziale, quella che mi dà la vita. È importante che
il gruppo sanguigno coincida. Non si tratta di svago o di tirature, ma di
sopravvivenza. In Russia leggere è sempre stato un modo di lottare per conservare
la propria dignità umana. E continuerà ad esserlo.
Quali
autori stranieri considera vicini a lei per modo di sentire, o per l'influenza che
hanno avuto su di lei?
Tra gli autori di lingua inglese, Shakespeare. Ricordo quando lessi "Amleto" in
inglese, armato di dizionari, commenti e diverse traduzioni russe. La cosa più
interessante, ovviamente, è confrontare le diverse traduzioni. Ci sono tanti
Shakespeare quanti sono i suoi traduttori. Di Shakespeare mi ha sempre
entusiasmato la capacità di passare dallo stile basso all'elevato e al sublime.
Quasi in tutte le messe in scena che ho visto finora, i registi rendono
perfettamente lo stile basso, mentre quello elevato non riesce altrettanto
bene. Unica eccezione fu l'Amleto interpretato da Vysotskij per la regia di Jurij
Ljubimov al Teatro sulla Taganka. Per me
quello resta il miglior Amleto di sempre. Shakespeare mi ha influenzato nel senso
letterale della parola: tutta la trama del romanzo Pismovnik (tr. inglese The
Light and the Dark) è costruita sulla frase "Il tempo è
scardinato", "The time is out of joint". Il mio romanzo prende
le mosse da questa frase e i protagonisti cercano attraverso le loro lettere di
ricomporre il tempo lacerato.
È
d'accordo con quanti affermano che la letteratura sta perdendo posizioni nel
mondo contemporaneo? O stanno solo cambiando le forme in cui essa si presenta?
No, non sono d'accordo. Quante persone leggono libri? Diciamolo: una piccola
percentuale della popolazione. Ma anche ai tempi di Pushkin questa percentuale
era piccola. Io penso che quella parte dell'umanità per cui la lettura è
un'esigenza vitale stia crescendo. Vede,
un numero così elevato di università non c'era mai stato in tutta la storia
dell'uomo. E che fa se la letteratura si sta trasformando da cartacea in
elettronica? Tra l'altro, anche le voci che danno per morto il libro stampato sono
un'esagerazione. Sono appena stato in Giappone, alla presentazione della
traduzione di un mio romanzo, e questo aspetto mi è saltato all'occhio: nel
metrò di Tokio la gente non legge i lettori elettronici, ma i libri stampati.
Che meraviglia!
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