Borodino, duecento anni dopo

Reportage del viaggio su quel campo di battaglia, dove nel 1812, con le truppe di Napoleone, caddero anche gli italiani, sconfitti dai russi

Il primo assalto è una vera e propria beffa. A una decina di gradini dal binario, il treno elettrico per Borodino parte al minuto spaccato e saluta sornione la stazione Bielorusskaja. Sono le 7.41 del mattino a Mosca: nulla di fatto. Nonostante la levataccia, il campo di battaglia deve attendere, proprio come continuava a negarsi ai 600mila soldati della Grande Armée, frementi di battersi con le truppe fantasma dello zar. Un’ora più tardi giunge notizia che il treno è di nuovo sulla linea, ma le incertezze di un civile russo depistano il secondo tentativo d’aggancio e, sotto occhi esterrefatti, la fuga avviene indisturbata sul binario di fronte. Borodino: così vicina, così lontana.

Meglio non demoralizzarsi: nella lunga marcia d’avvicinamento al cuore della Russia, Napoleone stesso dovette sostenere semplici scaramucce dapprima a Wilna, poi a Witepsk, e via via sino alla più remota Smolensk.

Eppure a 200 anni di distanza dal sanguinoso scontro che oscurò la stella dell’ultimo Imperatore d’Europa, i campi e gli acquitrini alle porte della capitale paiono ancora stregati per chi viene da oltreconfine. Dalla stazione di Mozhaysk, dove la maggior parte delle corse del treno termina, quasi non ci si accorge d’esser catapultati direttamente sulla linea del fronte, perché la strada che congiunge il borgo di Borodino con la sua piccola stazione ferroviaria taglia abitazioni di campagna immerse in una pace bucolica surreale.

Una donna anziana che lentamente cammina verso un pozzo per l’acqua. Bimbi intenti a inseguirsi nascondendosi di albero in albero. Passeri perplessi di fronte al passaggio dei rari visitatori. All’improvviso, però, memoriali di granito ritti come fucilieri sbucano ai lati: uno, due, tre… basta puntare lo sguardo e si ha la sensazione di esser stati accerchiati, senza neppure accorgersene. Alcuni si spingono sino al ciglio della strada, che ripercorre l’esatta linea divisoria fra gli schieramenti napoleonici e quelli dello zar, ma molti altri disegnano strane geometrie per i campi, ridanno vita ai contingenti al comando dell’eroico Bagration o del prudente Murat.

Il disorientamento è forte, perché al di là della strada, piante e terreni paludosi impediscono di muoversi agilmente: occorre accostarsi a pochi centimetri dai memoriali per capire quale sia la divisione che rappresentano, ma per farlo si devono attraversare ampie distese, scoprendosi inevitabilmente al fuoco nemico: a volte è lo stridere di una lamina sul marmo; altre il colpo ripetuto di un martello pneumatico.

A Borodino si lavora alacremente per farsi trovare pronti nei giorni di celebrazione, dal 1° al 7 settembre 2012, ma l’impegno con cui vengono forgiati percorsi lastricati o colonne segnaletiche conserva inevitabilmente un che di marziale. Gli operai si chiamano a gran voce da un punto all’altro, fanno segni, si spostano in gruppo o si accucciano sotto le piante: parlano sempre e solo in russo. Nessuna lingua straniera accompagna l’avanzata verso il fronte: forse le truppe napoleoniche hanno riparato altrove, sotto i colpi ripetuti dell’artiglieria. Forse i turisti attendono il grande evento per palesarsi.

Là dove un obelisco indica la via per il quartier generale dell’imperatore francese, all’incrocio della strada che da Semyonovskoe porta a Shevardino, scale e impalcature sostengono i resti del Monastero del Salvatore. Attorno all’edificio adibito a museo la terra è sventrata, le gru infieriscono.

Le opere di restauro parlano dei cannoneggiamenti ancor meglio delle divise strappate: non un lotto sembra esser scampato alla violenza del tempo, così come in fondo i resti della Grande Armée. Mentre la cupola d’oro della tomba di Bagration è già tornata a risplendere, esaltando l’eroico sacrificio del maresciallo che coprì la ritirata tattica di Kutuzov, ben più difficile si sta dimostrando la raccolta di fondi per preservare il ricordo delle divisioni napoleoniche. Nonostante le truppe dell’invasore contassero fra le proprie fila volontari di tutt’Europa, dal Belgio alla Prussia, dall’Austria all’Italia, la preparazione per l’anniversario della battaglia di Borodino ha portato allo scoperto quanto fittizia fosse l’unità delle nazioni occidentali invocata da Napoleone.

Gli italiani, ad esempio, che furono i più stretti alleati delle divisioni francesi, devono ringraziare soprattutto l’Associazione Studi Napoleonici per quanto riguarda il ricordo dei propri caduti. Grazie alla poesia “Il soldato di Napoleone”, scritta nel 1953 da Pier Paolo Pasolini per onorare un suo avo caduto in battaglia, la regione del Friuli è infatti l’unica ad aver sempre mantenuto vivo un legame speciale verso i 50mila arruolati per la campagna di Russia.

Non a caso, anche nel 2012 ha riportato in scena lo scontro dei belligeranti nei pressi di Porcia, mentre una delegazione è pronta a unirsi alla ricostruzione alle porte di Mosca. Per tutti gli altri italiani, invece, Borodino rappresenta una macchia da dimenticare, il gesto sconsiderato di un generale che fu salutato nel Belpaese come il vento della Rivoluzione, per poi rivelarsi niente più che un saccheggiatore di beni e tesori, un orgoglioso dittatore fattosi divorare dal gelo russo.

“Addio, addio, Casarsa, vado via per il mondo, il padre e la madre li lascio, vado via con Napoleone. Addio, vecchio paese, e compagni giovincelli, Napoleone chiama la meglio gioventù”. Dove siano i resti di questi eroici caduti al grido di Liberté, Égalité, Fraternité, difficile dirlo. La campagna s’è inghiottita le loro spoglie. Sui memoriali scintillano numeri di divisioni, altisonanti nomi di comandanti, ma per i fanti che si fecero massacrare dall’artiglieria di Kutuzov, non una pietra. Non una croce. Non un soldo per mano di quei governi alleati sempre pronti a invocare sacrifici, per voltarsi poi lesti quando è la storia a reclamar onori.

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