È difficile da credere: sembra ieri quando il gruppo dei Kino lanciava i propri album, condividendo con noi un’intera epoca. E oggi Viktor Tsoy avrebbe compiuto 50 anni.
Ancora oggi si sente spesso dire che “una stella del rock deve morire presto”, così come si diceva una volta per i poeti, che dovevano lasciare questa terra da molto giovani. Ma cosa ne sarebbe oggi di quella stella del rock, se fosse arrivata, invecchiando (grassa, pelata) fino a 50 anni? Molta gente è convinta che, se Viktor Tsoy avesse raggiunto una tale veneranda età, avrebbe di sicuro perso quell’aurea di leggenda che lo ha sempre contraddistinto.
“Per essere veramente popolari, nel nostro Paese si deve morire”, avevadetto una volta Mayk Naumenko, leader del gruppo rock sovietico “Zoopark”, che non visse molto più a lungo di Tsoy. Ma chissà quanto vale la pena sperare in una morte giovane, pur di rimanere effettivamente nella storia del rock. Chi può sapere, cosa sarebbe diventato oggi Tsoy. Forse sarebbe diventato un musicista qualunque, così come è accaduto per molti rocker, per i suoi amici e colleghi. Oppure si sarebbe convertito alla religione, così come il cantante Boris Borysich Grebenshikov, che oggi annuncia il festeggiamento dei 4.000 anni (in realtà 40) del suo gruppo “Akvarium”. E non credo che sia giusto rimproveragli che con l’età ha perso tutto il suo fascino.
Ma proprio per essere morto a soli 28 anni, Tsoy si è convertito in un autentico simbolo dell’epoca rock. Di quell’epoca in cui il rock russo ha avuto il suo più grande momento di gloria. Allora, agli albori della perestrojka, è accaduto qualcosa di inspiegabile. Per quanti libri siano stati scritti e per quanti articoli siano stati pubblicati, è impossibile comprendere fino in fondo il motivo che ha spinto questo Paese ad aver bisogno proprio di questa musica.
Ma se lasciamo da parte il lato politico-sociale del rock russo, la sua funzione di dare boccate di aria fresca alla cultura di massa del Paese, incatenata ai ceppi della censura ideologica, allora non resta molto di questi talenti, le cui canzoni sono state ascoltate da milioni di persone.
E proprio Tsoy è uno di quei pochi musicisti dotati di vero talento, un talento che ha fatto epoca. Le sue canzoni sono contagiose, cariche di emozioni e soprattutto facili: non è un caso, infatti, che molti giovani amanti del rock si avvicinino oggi alla chitarra proprio sulle note della sua musica.
Parole sante, quando si dice che la genialità delle cose sta nella sua semplicità: un’espressione che calza a pennello nelle opere di Tsoy. Lui, che non era né un angelo, né un diavolo, ma un semplice, semplicissimo musicista. Anche se per noi, per il nostro rock, si è convertito in una figura sacrale.
Non molto tempo fa sono capitato a casa di Aleksandr Lipnitskij (ex componente del gruppo “Zvuki Mu", ndr), nella Karetnij Ryad. Un appartamento che negli anni Ottanta ha visto passare tutti i grandi musicisti pietroburghesi. “Lì, in questo stesso posto dove adesso Lei è seduto, una volta c’era un divanetto rotondo dove Tsoy amava dormire – mi ha detto Lipnitskij, seduto in cucina -. Era flessibile, si adattava molto. Non amava le conversazioni sofisticate, e non si intrometteva in questo tipo di discussioni. Di solito parlava di cibo, di musica. Amava il cinema, gli piaceva Bruce Lee”.
Nonostante la sua notorietà, Tsoy fino ad oggi è rimasto un ragazzo controcorrente. Le autorità non fremono affatto all’idea di sostenere iniziative in suo onore, tanto meno di dedicargli delle vie.
I suoi fan, senza l’aiuto di nessuno, hanno ripristinato il muro a lui dedicato sulla Vecchia Arbat, in centro a Mosca, e tengono in vita il leggendario luogo “Kamchatka” a San Pietroburgo, dove egli lavorava insieme ad altri musicisti. E sempre da soli hanno raccolto fondi per innalzare una statua, che però non è mai stata eretta. E, onestamente, secondo me questo è un bene: è proprio questo il miglior monumento che si poteva fare a Tsoy. Perché, nel momento in cui a un rocker viene dedicato un monumento, egli cessa completamente di essere rocker.
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