La cortina di ferro, la Guerra Fredda, i blocchi contrapposti. Crisi internazionali dietro l’angolo e l’incubo atomico che bussava alle porte del reale. Usa e Urss, Occidente e Oriente. Il mondo bloccato dopo la Seconda Guerra Mondiale. Un mondo in cui i canali di comunicazione tra le due superpotenze erano davvero pochi.
Ma dove si fermano le istituzioni inizia il lavoro della cultura, dell’arte. E a mettere in contatto quei due mondi fu anche l’arte popolare per eccellenza del 20esimo secolo. Ovvero sua maestà la musica popolare nella sua più scintillante declinazione: il rock. Ed è – come sempre – tutto merito dei Beatles. Del blues acido di Back in Ussr.
Certo, nei primi anni Sessanta il bacino indiavolato di Elvis aveva già fatto capolino nella Piazza Rossa. Ma fu l’effetto Fab Four a spingere numerosi artisti russi a cimentarsi con il rock. E se da un lato Melodya , la casa discografica ufficiale delle Repubbliche Sovietiche, dettava la linea, dall’altro decine di artisti cercavano di diffondere messaggi e contenuti della musica che arrivava dall’altro lato del mondo. Una lunga ballata per la libertà. E tutto partiva da Leningrado.
Negli anni Settanta prima gli Acquarium, poi il post-punk dei Kino. Band messe sotto osservazione dal regime per la loro carica eversiva. Poi la Glasnost e la Perestrojka, e il rock che mette in scacco il Patto di Varsavia. Gli Scorpions ricevuti al Cremlino, Brian Eno che registra gli album di Boris Grebenshchikov, la compilation Red Wave che conquista i critici e il pubblico occidentale. E negli ultimi anni il sigillo del Live 8 in Piazza Rossa e la nascita di Mtv Russia. E i Disen Gage, i Kostaven Group, i Kipelov e gli Arkona a raccontare in note la vita nella Federazione.
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