Josif Brodsky, "professione poeta"

L’imputato Josif Brodsky è in piedi nell’aula di un tribunale sovietico, l’accusa è di “non svolgere alcuna attività socialmente utile”. Il Pm: « Qual è la tua professione? » . Lui muove le mani e risponde: « Scrivo versi, traduco. Mi pare... » . Il pubblico ministero: « Non le pare un bel niente. Rettifichi la posizione, non si appoggi al muro, guardi verso il tribunale e risponda come si deve. Ha un lavoro fisso? » . E Brodsky: « Pensavo che quello fosse un lavoro fisso, scrivevo poesie, pensavo che sarebbero state pubblicate, mi pare... ». L’accusa insiste: « Non interessa quel che le pare, mi dica perché lei non lavora? » . « Sono poeta. Traduco liriche » . Il giudice sogghigna e incalza ancora: « Chi ti ha riconosciuto come poeta? Chi ti ha arruolato nei ranghi dei poeti? » . Brodsky non esita un secondo: « Nessuno, come nemmeno qualcuno ha mai detto che io appartenga alla specie umana ».

La sentenza, seguita a quel dialogo kafkiano, sarà crudele e infame: cinque anni ai lavori forzati. Era il 1964 e accadeva in Urss. Da allora son trascorsi 46 anni, un’eternità dentro la quale Brodsky ha fatto molte cose. Due su tutte: vincere il Premio Nobel per la letteratura nel 1987 (il più giovane dei premiati) e morire, troppo presto, anche per un artista, nel 1996, a New York, ad appena 55 anni. Questo mese ricorre il 70mo anniversario dalla sua nascita e di lui ci restano i libri, i versi scritti nel tormento di un’esistenza vissuta dalla parte opposta al potere: «Ho sperimentato due oceani e due continenti / mi sento quasi come il Globo / non c’è più posto dove andare / sole le stelle più in là».

Per capire questo sgomento, l’abisso di un dolore che diventa letteratura, dobbiamo quindi tornare indietro nel tempo, a quel processo del 1964. Un anno dopo quella condanna Brodsky verrà liberato, grazie anche alle proteste ed agli interventi degli intellettuali di tutto il mondo, e si confinerà per sette lunghi anni nella sua Leningrado. Nel 1972 verrà espulso definitivamente dall’Unione Sovietica (la motivazione, “è un parassita sociale”) e comincerà il suo esilio da pellegrino dell’arte, in giro per la Terra, senza mai dimenticare, però, le proprie radici russe. Gli Stati Uniti diventeranno la sua terra d’adozione, il suo luogo fisico, la sua residenza, ma la Russia, al di là della cortina di ferro, i suoi demoni, la guerra e la pace, l’azzardo del vivere, resteranno sempre il suo abbecedario spirituale, imprinting essenziale alla sua opera di poeta.

A pubblicare i suoi primi versi era stata, nel 1958, una rivista clandestina con il placet della letterata Anna Achmatova. Da lì la poesia sarà la sua vita e la vita la sua poesia. Se si guarda alle cronache ed alla nascita della dissidenza in Urss non vi è dubbio che Brodsky abbia rappresentato uno dei primi casi letterari del genere. Dopo di lui arriveranno Sinijavskij e Daniel ma non saranno la stessa cosa. Mentre gli altri dissidenti, infatti, faranno parlare di sé per l’impegno politico, lui, Josif, rifiuterà sempre l’etichetta di “dissidente”, arrivando a spiegare che si tratta di un vocabolo occidentale che in lingua russa non esiste. Perché la sua dissidenza - poeta sino in fondo - non sarà mai politica ma esistenziale. In uno dei suoi saggi, tradotti in italiano con titolo “Meno di Uno” (Adelphi Editore) cercherà di narrare la propria visione dell’essere uomo. Per difendersi dal male – questa la convinzione di Brodsky – c’è soltanto « la libertà e l’originalità di pensiero » perché « il male ama l’uniformità, tutto ciò che è solido » . A lui preme la dimensione dell’uomo non la politica.

Visse dalla parte opposta del potere, ma la sua dissidenza fu esistenziale, mai politica


E non è un caso che il faro filosofico di questo grande poeta, peraltro mai nascosto, sarà il pensiero di Søren Kierkegaard, ossessionato dai continui rimandi all’angoscia, al disagio, all’insofferenza d’esserci, vero e proprio sconforto anche nei casi più felici. Da qui l’amore viscerale, senza condizioni, per la poesia. Lo spiegherà nitidamente il 22 ottobre del 1987 quando la notizia del Premio Nobel assegnato a lui sarà ormai pubblica. « Questa epoca – sottolineerà - ha acquistato l’immagine di un brutto sogno, la poesia è dunque una necessità » . E ancora: « Leggiamo e facciamo leggere di più, se vogliamo vera democrazia » . Per questo, forse, Josif Brodsky si trovava a suo agio quando veniva in Italia, Paese che nasce da un sogno di letterati prima ancora che da una volontà politica. « Mi chiedete se vorrei tornare in Urss – risponderà ai giornalisti che lo intervisteranno nel giorno del Nobel. Certo, è una cosa a cui penso spesso ma, forse, io sono un giramondo nato perché ora, pure in Occidente, mi sento a casa mia » .

Dopo quel 1987 da Nobel, una rivista di Leningrado, “Neva”, pubblicherà sei delle sue poesie. Sono gli anni di Gorbaciov, con l’Urss che corre verso la glasnost e la perestrojka. Nove anni dopo, a New York, nel suo appartamento di Brooklyn, un giorno freddo di gennaio il poeta Josif Brodsky morirà, a 55 anni, per un infarto. Sul cuore aveva cantato: «Un fiammifero basta per accendere un fuoco / così l’orologio di un nonno, fratello del battito cardiaco / essendosi fermato da questo lato del mare / per mostrare il tempo all’altro / continua a ticchettare». Come i suoi versi.

Massimiliano Lenzi è giornalista italiano esperto di televisione, lavora nella redazione di “Anno zero”




Il libro: "Sulle tracce di Brodsky"

A zonzo per Venezia

Nel 60° anniversario della nascita di Josif Brodsky è stato pubblicato a Mosca l’insolito volume “Sulle tracce di Brodsky”. La sua singolarità sta nel fatto che non si tratta né di un saggio sull’opera del poeta né di una biografia, ma di una sorta di guida ai luoghi prediletti da Brodsky. Si potrebbe dire che è un libro su Venezia, città amatissima da Brodsky, o meglio su una Venezia inedita: come si arriva oggi, infatti, a Fondamenta degli Incurabili, tratto di strada evocato da Brodsky nel suo saggio omonimo a cui è stato restituito il nome originario dall’ex sindaco Cacciari, ma ormai inaccessibile nella Venezia attuale? Iurij Lepskij, il giornalista di “Rossiyskaya gazeta” autore del libro, lo sa.





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