Ritratto di Domenico Cimarosa realizzato da Alessandro Longhi
Un filo diretto, in note. Che annoda Napoli e San Pietroburgo. Nel Settecento alla corte delle imperatrici Anna, poi Elisabetta e infine Caterina II c'era la musica napoletana. Artisti alla corte delle zarine, punto più alto di un mecenatismo che richiamava il Rinascimento, tra artisti, scenografi, architetti. Dall'Italia ma soprattutto dalla capitale del Regno di Napoli. In viaggio per sei, anche sette mesi verso la Russia, in carrozza, c'era da attraversare le Alpi, poi i pezzi dell'Europa dell'Est prima di arrivare nelle corti ricche, affamate di bellezza e arte. I russi cercavano Napoli. Offrivano una ricca vita di corte, compensi impensabili in altre parti del Vecchio Continente. E ci fu così un flusso di partenopei a corte. “Addirittura la tarantella veniva riscritta anche da ognuno dei musicisti del Gruppo dei Cinque. Miliij Balakirev, Cesar Cui, Aleksandr Borodin, Modest Musorgskij, Nikolaj Rimskij-Korsakov, la musica popolare russa lontana dai suoni dell'Occidente ma innamorata di quella napoletana”, spiega il Maestro Enzo Amato, musicista, chitarrista, famoso studioso della musica settecentesca e presidente dell'Associazione Domenico Scarlatti di Napoli.
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Il Maestro ripercorre con noi il cammino musicale dei napoletani in Russia. Nei prossimi giorni – l'11 novembre 2015 - è in programma una sua conferenza sul tema al Centro Russo (Russkij Mir) all'Università L'Orientale di Napoli e qualche giorno dopo prenderà la parola anche all'Università La Sapienza di Roma. Perché per i russi, tanto nella capitale quanto a San Pietroburgo, la musica lirica nel Settecento parlava, anzi suonava italiano. Soprattutto napoletano.
“Basti pensare che la prima opera scritta per Anna I e poi tradotta in lingua russa era di Francesco Araja, a San Pietroburgo per circa 15 anni. C'era la voglia, anche l'esigenza di europeizzarsi – continua il Maestro -. C’era anche da abbattere l'immagine di un Paese arretrato, medievale, poco incline alla bellezza dell'arte occidentale. Per questo motivo le Imperatrici non badavano a spese”.
Ma Napoli non era solo il simbolo della lirica ma anche dell'architettura. “Ed è stato proprio un architetto napoletano, Carlo Rossi, figlio di una ballerina russa con papà nativo di Sessa Aurunca (provincia di Caserta) che ha progettato il Palazzo che è ora sede del Museo russo di San Pietroburgo, così come lo stesso architetto ha ideato l'assetto del Palazzo d'Inverno, la residenza degli Zar, e del Teatro Aleksandriskij” aggiunge il Maestro Amato.
Araja componeva 12 opere in Russia, compresa Cefalo e Procri, interamente in lingua russa, ispirata alle Metamorfosi, il capolavoro del poeta latino Ovidio. E nelle rappresentazioni non c'erano cantanti con grande estensione vocale, quindi veniva utilizzato il coro, che caratterizzerà la produzione, lo stile delle opere russe.
Dopo Araja, Tommaso Traetta. Sette anni di soggiorno alla corte di Caterina II, prima di lasciare la Russia per il clima gelido, verso Londra. E tre opere, soprattutto l'Antigona. Scriveva in italiano ma la parte recitata era omessa per consentire la comprensione al pubblico che seguiva le arie con la traduzione dei libretti in lingua russa. E dopo Traetta, Giovanni Paisiello, 11 opere in Russia e che scriverà il Barbiere di Siviglia nel 1782, precedendo Gioacchino Rossini. E poi Gaetano Andreozzi, uno dei tre musicisti di Aversa, a pochi chilometri da Napoli, assieme a Domenico Cimarosa, Niccolò Iannelli. Per la corte di San Pietroburgo, la Didone Abbandonata nel 1784 e l'anno successivo Giasone e Medea. Infine, Domenico Cimarosa, chiamato da Caterina II, 11 opere e il requiem per la moglie dell'ambasciatore italiano a San Pietroburgo, eseguita alla cappella della corte dell'Imperatrice.
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