La Russia è entrata ufficialmente nel conflitto siriano. Alcuni osservatori si dicono sorpresi per la rapidità con la quale Mosca si è fatta coinvolgere nel processo. Il 29 settembre il Presidente Vladimir Putin dichiarava che Mosca aveva intenzione di affrontare lo Stato islamico. Nella mattinata del 30 settembre il Consiglio della Federazione concedeva il permesso e, in poche ore, le Forze aeree russe si alzavano in volo per sferrare i primi attacchi.
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In realtà era da settimane, forse mesi, che si preparava l’operazione. Il punto più complesso di tutto questo processo non era tanto la preparazione tecnica, quanto quella politica. Mosca ha cercato di organizzare i dettagli dell’operazione insieme a tutte le parti interessate (o meglio, con tutte le parti che hanno accettato di prendere parte a questo dialogo).
Prima di tutto, Mosca ha ottenuto un compromesso con i vicini della Siria: Israele e Turchia. Con questi paesi era indispensabile trovare un accordo per evitare incidenti militari. A quanto pare, la strategia utilizzata con i turchi e gli israeliani è stata quella di presentare i fatti e proporre loro un accordo. Entrambi i Paesi si sono dimostrati d’accordo (a Tel Aviv hanno imposto a Mosca la condizione di non permettere l’invio di armi russe all’organizzazione libanese Hezbollah).
Con il gruppo di Paesi occidentali, invece, è stato più complicato trovare un punto di incontro. Sono due i principali problemi che impediscono una cooperazione antiterroristica tra Usa, Ue e Russia: da che parte lottare e contro chi.
L’essenza del primo problema consiste nel fatto che l’Occidente si oppone categoricamente a lottare al fianco di Assad. Gli Stati Uniti e l’Europa credono che il Presidente siriano dovrebbe dimettersi immediatamente. Mosca e Teheran, invece, si rifiutano di tradire Assad.
Come risultato, in questo momento le parti hanno raggiunto alcuni compromessi e i Paesi occidentali hanno disposto alcune concessioni. Questi Paesi hanno accettato che Assad non abbandoni il proprio posto ora, ma al termine dell’operazione militare e della guerra civile. In teoria, non potrà partecipare a nuove elezioni presidenziali. L’ultimo a cedere è stato Washington: nella notte tra il 29 e il 30 settembre (ora di Mosca) John Kerry ha riconosciuto che ciò di cui ha bisogno la Siria non è tanto il rovesciamento di Assad, quanto “una transazione graduale e controllata”.
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Da parte sua Teheran e Mosca hanno lasciato intendere di non essere contrarie a questa transizione. Hassan Rouhani ha detto tra le righe di non escludere la possibilità di riforme in Siria, mentre Putin il 30 novembre esprimeva la speranza che il Presidente Assad “mostri un atteggiamento attivo e flessibile, dimostrandosi aperto al compromesso in nome del proprio Paese e del suo popolo”.
Il secondo problema è l’incertezza dell’obiettivo dei bombardamenti russi in Siria: lo Stato islamico o l’opposizione del governo ufficiale di Damasco. Prima di partire alla volta degli Stati Uniti, Putin lasciava intendere che le forze aeree russe avrebbero potuto attaccare tutte le parti in contrasto con il governo legittimo della Siria, poiché queste forze favoriscono lo Stato islamico.
L’Occidente ha chiesto a Mosca di limitarsi a bombardare le posizioni dell’Isis, anche se con qualche concessione. Corrono voci che l’opposizione siriana si vedrà costretta a sedersi al tavolo dei negoziati con Assad per firmare un accordo politico, lasciando così libere le forze del governo che lottano contro i terroristi.
La cosa certa è che in questa operazione ci sono ancora diversi punti da risolvere: la creazione di una coalizione più ampia, concordando con maggiori dettagli la coordinazione con la coalizione statunitense. Senza dubbio tutto ciò può essere realizzato nel corso dell’operazione, il cui inizio non poteva essere posticipato ulteriormente: ogni giorno che passa lo Stato islamico rafforza la propria posizione. Inoltre ciascuna parte può cambiare posizione in qualsiasi momento per via di influenze esterne o di fattori interni.
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