Sergej Dvortsevoj (1962-) appartiene alla classica scuola sovietica del cinema documentario, che dà importanza alla drammaturgia, ai personaggi interessanti e a una composizione ben costruita delle inquadrature. Il suo “Klebnyj den” (all’estero presentato anche con il titolo inglese “Bread Day”) è stato girato a 80 chilometri da San Pietroburgo, in una stazione abbandonata nelle cui vicinanze c’è un villaggio dove vivono solo anziani. Una volta alla settimana viene portato loro il pane, che è lasciato in un vagone che viene staccato dal treno. E ogni volta gli stessi residenti spingono il vagone con il pane lungo i vecchi binari arrugginiti fino al loro villaggio.
La camera di Dvortsevoj, come insensibile, guarda con indifferenza dapprima la carrozza cigolante e i tentativi degli anziani di spostarla, poi i battibecchi tra i poveri e la venditrice per un pezzo di pane; fissa gli avvenimenti in un modo che ricorda più uno spettacolo teatrale. In realtà, questa è un’immersione completa nelle vite dei protagonisti, da cui il regista ha magistralmente raccolto un’immagine poetica delle persone e del villaggio perduto, mentre la pellicola ha raccolto premi in tutta Europa.
Questo film di Viktor Kosakovskij (1961-) è diventato un classico del cinema documentario mondiale. Kosakovskij gira come faceva Herz Frank (1926-2013): l’inquadratura esprime sempre qualcosa più della sola immagine. L’arte e il simbolismo per il regista vanno oltre la ricchezza degli eventi narrati. Questo è il motivo per cui le sue storie semplici affascinano a prima vista gli spettatori di tutto il mondo.
La storia dei Belov, due anziani, fratello e sorella, che vivono vicino al fiume è una di quelle. Condividono la casa ormai da molti anni. Di giorno raccolgono insieme le patate, la sera litigano a tavola. Lui, ubriaco, promette ancora una volta di ucciderla facendola a pezzi con un’ascia “perché è un essere inutile”, lei sa godersi la vita senza ragione e scopo, con semplicità. Le loro posizioni sulla vita sono come due poli opposti, tra i quali la camera si muove lentamente, con rispetto per entrambi.
Nel 2019, Alina Rudnitskaja (1976-) ha girato un film di un’ora e mezzo, “Shkola soblaznenija”/“School of Seduction”, un documentario sulle ragazze russe che decidono di padroneggiare l’arte di sedurre gli uomini frequentando corsi specializzati, e poi mettono in pratica queste conoscenze nella vita. Ha ripreso le sue eroine, i loro successi e fallimenti per sette anni, e l’inizio di questo lungo progetto è stato il suo cortometraggio del 2007 “Kak stat stervoj” (traducibile con “Come diventare una stronza”). In questo documentario, nella piccola stanzetta del loro coach, le stesse protagoniste stavano appena iniziando il loro duro percorso per la felicità, imparando pose sexy o le tecniche per sfilare quanto più denaro possibile agli uomini. Ai festival occidentali sono andati pazzi per uno sguardo così ravvicinato sul sistema di valori patriarcale-arcaico delle donne russe.
Il film d’esordio alla regia della nota critica cinematografica Ljubov Arkus (1960-) è diventato una delle pellicole russe più forti del XXI secolo. Tutto è iniziato con la poesia malinconica “Ljudi” (“Le persone”), scritta da un adolescente autistico, che è stata pubblicata prima su internet e poi sulla rivista di cinema “Seans”. La Arkus ha trovato l’autore. Per molto tempo, ha osservato come Anton, dopo la morte di sua madre per un cancro, ha vissuto in centri di aiuto, ma non ricevendo un sostegno adeguato è diventato sempre più dipendente dagli estranei. A poco a poco, la regista si è avvicinata al ragazzo, è diventata per lui una “seconda madre” e ha messo a nudo lo stigma con cui convive un enorme numero di persone affette da autismo.
“Anton tut rjadom”/“Anton’s Right Here” è stato un film rivelatore e una sorta di j’accuse che ha cambiato la realtà. È stato anche l’inizio della storia di un’associazione di raccolta fondi, diventata poi una fondazione specializzata. Questo film ha realizzato il sogno del leggendario Dziga Vertov (1896-1954) che la macchina da presa un giorno cambierà il mondo, e il tipo delle relazioni umane.
Il pioniere del cinema Dziga Vertov ha diretto uno dei film principali della storia del cinema (titolo originale russo: “Chelovek s kinoapparatom”) che, secondo la pubblicazione britannica “Sight & Sound”, è “il miglior documentario di tutti i tempi”. Montaggio muto di frammenti della vita urbana di una persona comune in Unione Sovietica, con alcune scene che durano solo pochi secondi, dimostra tutte le possibilità del linguaggio cinematografico: dalle riprese accelerate ai riflessi. Questa “nuova visione” è servita da manifesto e guida pratica per i registi di documentari di tutto il mondo.
Varie colonne sonore sono state aggiunte al film “L’uomo con la macchina da presa” nel corso anni. Le versioni migliori sono quelle di Michael Nyman e della Cinematic Orchestra, che hanno combinato al fermento in bianco e nero della vita sullo schermo il jazz moderno.
Il film sulle vacanze estive dei russi dal basso reddito su una stretta striscia della costa del Mar Nero sconvolge per la sua franchezza, per il ritratto sociale dei protagonisti e per le scene di abusi sugli animali (che vengono portati in spiaggia per fare soldi con le fotografie assieme ai turisti). Gli spettatori del canale franco-tedesco Arte hanno persino creato movimenti sociali in difesa dei cammelli russi.
Aderendo ai principi del “cinema reale” (nessuna messa in scena, la qualità è secondaria, nessun filtro), Rastorguev (1971-2018) ha realizzato un film duro, di quelli che per molti sono un pugno nello stomaco. Il film di 90 minuti ha ricevuto il premio principale all’IDFA, il più importante festival mondiale di documentari, ad Amsterdam. Come ha scritto l’insegnante di Rastorguev, Vitalij Manskij, “questa è una vera epopea della vita russa, l’apice assoluto del cinema documentario. Se Rastorguev avesse girato solo questo film, sarebbe stato comunque più che sufficiente per definirlo un genio”. L’autore è stato ucciso con due colleghi nella Repubblica Centrafricana.
Questo ennesimo capolavoro di Kosakovskij (1961-), ha aperto il Festival di Venezia nel 2011. Il regista ha dimostrato ancora una volta che i documentari poetici non sono sempre destinati ad essere apprezzati solo da una ristretta cerchia di cinefili, ma possono competere sul grande schermo e avere successo.
Nel film “Viva gli antipodi!” (titolo originale russo: “Da zdràvstvujut antipódy”) il regista traccia una linea retta attraverso il centro della terra per mostrare quanto siano profonde le connessioni tra persone e paesaggi situati il più lontano possibile. Per fare questo, ha viaggiato in Cina, Argentina, Nuova Zelanda, Spagna, Siberia, Cile, Hawaii e Botswana.
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