Venticinque anni fa, il 9 novembre del 1989, crollò il Muro di Berlino. Un evento che cambiò il destino del mondo (Foto: Ullstein bild / Vostockphoto)
Andrei Gracev, ex portavoce del presidente dell’Unione Sovietica Mikhail Gorbaciov, ha scritto un libro dal titolo "Il Titanic sovietico: diario di bordo" che sta per essere dato alle stampe in Russia. Con il consenso dell’autore, presentiamo qui ai lettori di Rbth un estratto.
Una questione di sicurezza nazionale
Gorbaciov afferma di essere venuto a conoscenza della caduta del Muro di Berlino solo la mattina del 9 novembre e possiamo credergli. Dal momento che gli avvenimenti a Berlino si susseguivano in modo caotico, nessuno della sua cerchia se l’era sentita di svegliare il Segretario generale per sviluppi che apparentemente non sembravano mettere a repentaglio la sicurezza nazionale. Quando gli fu riferito che di notte, sotto la pressione dei cortei e delle manifestazioni di piazza, le autorità della Ddr erano state costrette a rimuovere i posti di blocco al confine con Berlino Ovest il suo commento era stato: “Hanno fatto bene”.
Tutto era avvenuto secondo il suo desiderio, ma senza un ordine diretto o un’autorizzazione ufficiale da parte sua. Già nel corso del Primo congresso dei deputati del popolo Andrey Sakharov (il celebre fisico, tra gli inventori della bomba all’idrogeno, diventato dissidente e difensore dei diritti civili, era stato mandato al confino a Gorky e nel 1986 aveva avuto da Gorbaciov il permesso di rientrare a Mosca ndr), commentando la condotta di Gorbaciov, aveva dichiarato: “Non si riesce mai a capire quali decisioni vengano adottate da lui e quali si compiano invece da sole, quasi esaudendo un suo desiderio. È in grado di realizzare tali combinazioni, quando, per usare il gergo scacchistico, si determina un ‘Zugzwang’, e si ottiene proprio ciò che lui desiderava”.
Quel nove novembre che cambiò la storia |
Il primato dell'azione
Il mio caro amico Gyula Horn (politico ungherese che dal 1989 al 1990 ha rivestito la carica di ministro degli Esteri e dal 1994 al 1998 quella di primo ministro nella Repubblica Ungherese ndr) aveva perfettamente colto questa specificità del comportamento di Gorbaciov nelle situazioni spinose o delicate. “Se vuoi conseguire un risultato e sei sicuro della fondatezza politica della tua decisione, agisci”. Nel caso in questione, Gorbaciov pur non avendo conquistato la palma del leader che aveva personalmente cominciato ad abbattere il muro eretto da Khrushchev, non aveva perlomeno dovuto fornire nessuna spiegazione all’opposizione conservatrice, né ai generali di Mosca per aver lui “regalato” all’Occidente senza contropartite l’inestimabile atout strategico sovietico.
Gorbaciov non era il solo a doversi preoccupare di un’eventuale reazione da parte dei generali sovietici ai fatti accaduti. L’intera comunità politica occidentale, a cominciare dai leader della Repubblica Federale tedesca, era stata colta di sprovvista dalla leggerezza con la quale il presidente sovietico sembrava aver sciolto da solo uno dei nodi più cruciali della “guerra fredda”, risolvendo la “questione berlinese”, che dal 1948 in poi era stata pretesto per almeno due crisi tra le più aspre nelle relazioni tra Est ed Ovest.
L'attesa dell'Occidente
In Occidente restarono in attesa di come si sarebbe comportata Mosca di fronte a questo cataclisma strategico. Alcuni temevano che Gorbaciov sarebbe stato costretto anche contro la sua volontà a ripristinare lo status quo con l’aiuto dei carri armati sovietici. Altri, al contrario, erano convinti che se non l’avesse fatto sarebbe stato allontanato dal potere dai militari esasperati, che non erano disposti ad accettare una revisione degli esiti dell’ultima guerra. Il risultato, in entrambi i casi, sarebbe stato deplorevole: la perdita di ogni speranza di cambiamento in Urss, secondo quanto promesso dalla perestroika, e il ritorno alla politica sovietica di contrapposizione all’Occidente.
Paradossalmente in quei giorni in Occidente più che in Oriente si temeva che i tedeschi - sia all’Est che all’Ovest – in preda all’euforia per la caduta del Muro avrebbero dimenticato il loro status di nazione sconfitta e si sarebbero accinti a determinare autonomamente il proprio destino futuro. Il vulcano tedesco, risvegliatosi inaspettatamente, aveva ridestato in Europa complessi e timori antitedeschi sopiti dal tempo e dagli anni della solidarietà atlantica. Questa percezione di una “storia che ritorna” era avvertita in un modo particolarmente esacerbato da Miterrand e dalla Thatcher che si rivolsero a Gorbaciov, così come Roosevelt e Churchill ai loro tempi si erano rivolti a Stalin.
Il mondo con il fiato sospeso
Per qualche settimana le capitali europee occidentali caddero in una sorta di panico politico e stress emotivo che colpì la stessa Washington, libera, grazie all’oceano, della sindrome antitedesca degli europei, ma fortemente preoccupata per la perdita del controllo sul suo partner strategico più affidabile in Europa. (Anche Kissinger, il più europeo degli americani, in un colloquio con l’ambasciatore sovietico Dobrynin “consigliò di rimuovere” il contingente militare sovietico dislocato nella Ddr). Dopo l’inatteso miracolo della caduta del Muro il mondo trattenne il fiato, aspettando l’evoluzione degli eventi. Né a Mosca, né a Bonn, né a Berlino i leader erano disposti a farsi sfuggire di mano la politica in cui credevano e che controllavano per lasciarla alla piazza. Gorbachev per non “perdere la faccia” dovette convincere tutti – sia in patria che all’estero – di rimanere “padrone della situazione” e che nessun altro avrebbe dominato quella forza travolgente scatenata da lui stesso. Per questo occorreva mettere in guardia Bonn dal compiere dei passi avventati, e soprattutto non concordati con Mosca, vero l’unificazione nazionale. Il fiume della Storia, fuoriuscito a un tratto dal suo corso, doveva essere senza indugio riportato nei suoi argini diplomatici di cemento…
Il Muro di Berlino cadde. Le barriere dei confini furono rimosse e il passaporto per l’estero e l’espatrio fu riconosciuto come un diritto per i cittadini sovietici, un diritto sancito dalla Costituzione. E, sorpresa, le città a Est non si svuotarono e le fabbriche non dovettero chiudere per la mancanza di forza lavoro. In sostanza, lo Stato sovietico era stato costretto a seguire un consiglio di semplice buon senso, suggerito già vent’anni prima in un giornale studentesco: “Volete scoprire se gli studenti (o semplicemente i cittadini) sovietici sono davvero maturi per viaggiare all’estero? Lasciateli andare”. I cittadini dell’Europa Occidentale ebbero modo di scoprire autonomamente che il Muro che era caduto non era soltanto una barriera poliziesca, dietro cui i regimi oppressivi nascondevano se stessi e tenevano sotto controllo i propri cittadini, ma anche una “diga” che difendeva il loro benessere e il loro modello sociale dal serbatoio di povertà e di aggressivo nichilismo di destra, d’intolleranza e di odio sociale dell’Est.
L’autore, che dal 1989 ha rivestito la carica di vice coordinatore del Dipartimento internazionale del Comitato centrale del Pcus e nell’agosto 1991 è stato nominato portavoce del capo dello Stato, ha trascorso praticamente tutto il suo tempo accanto a Gorbaciov e alla sua famiglia.
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