Essere un sommozzatore

Foto: Ria Novosti

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I soccorsi, le emergenze, la preparazione emotiva e atletica. Ecco la giornata tipo di chi compie operazioni di soccorso subacqueo

Ivan Epifanov, alto ufficiale del dipartimento di operazioni di soccorso subacquee del Centro “Lider” per le operazioni ad alto rischio del Ministero russo per le Situazioni di Emergenza, ha parlato con RBTH del suo lavoro di palombaro.

Ivan, ci racconta per favore dei momenti più brillanti e più difficili del suo lavoro? So che lei ha recuperato i corpi senza vita dalla nave affondata “Bulgaria”. Come si è svolta l’intera vicenda?

Da quanto ricordo, era una meravigliosa domenica. Niente faceva presagire la tragedia. Io mi accingevo a uscire per una passeggiata. All’incerca un’ora dopo la ricezione del segnale, già ero alla base del nostro Centro “Lider”. Noi abbiamo l’obbligo di agire nel giro di un’ora, indipendentemente dal fatto che sia un giorno festivo o meno. Se sei in servizio e figuri tra le riserve, allora hai a disposizione in tutto 10 minuti. Se non risiedi nell’area di sede dell’unità, il tempo massimo è tre ore. Devi essere sempre pronto a calarti in qualsiasi momento. E la tua attrezzatura deve avere tutto il necessario per permettere che tu sopravviva 3 giorni in autonomia quando mancano i presupposti base della civiltà: riserve di cibo, di acqua e un riparo. Ci dissero subito che non si trattava di un’esercitazione: in Tatarstan era affondata una nave e bisognava dirigersi sul posto. Dopo due ore il nostro aereo era già decollato. Sulla riva del bacino Kuibyshevskiy abbiamo piantato delle tende e da lì abbiamo raggiunto in circa 40 minuti e a bordo di un’imbarcazione il luogo di perdita della nave “Bulgaria”. Ma abbiamo trascorso la maggiorparte del tempo non nell’accampamento, ma sul rimorchiatore da cui partivano le operazioni subacquee. Vi sono stati momenti in cui avevamo 8 ore di riposo, ma contando le 2 ore complessive tra ritorno alle tende e poi di nuovo a lavoro, non c’era quasi tempo per dormire. Si sa quanto l’acqua renda deboli. Anche se una persona nuota in un fiume per 15 minuti, quando esce, il sonno le piomba addosso. Ma quando lavori sott’acqua per due ore, poi esci per cambiare le bombole e ti reimmergi, alla fine ti ritrovi naturalmente senza forze. Gli occhi si chiudono, non hai voglia di far nulla tranne che dormire, anche solo per poco.

Qual è il limite di tempo entro cui un sommozzatore può resistere sott’acqua?

Di norma 6 ore, ma dipende da una serie di fattori. Prima di tutto, dalla gravosità del lavoro. Poi, dalla profondità a cui lavorano i sommozzatori. Infine, dalle condizioni di lavoro, se c’è forte corrente oppure se le acque sono calme.

E quanto pesa l’attrezzatura?

Circa 40-45 chili. A volte arriva fino agli 85-90 chili. Se fosse stato necessario tagliare lo scafo della nave, allora sarebbe convenuto indossare tale attrezzatura pesante, specifica per questo genere di lavoro. Nel nostro caso, le difficoltà furono provocate non dall’attrezzatura, ma dall’esigenza di livellare tutte quelle costruzioni all’interno della nave. Stai sempre sul filo del rasoio, pronto ad affrontare l’inaspettato.

A quale profondità vi immergeste?

Fino a 15 metri.

Se la sente di condividere con noi le sensazioni provate durante la prima immersione?

Fu terribile. Ma in realtà mentre lavori non pensi alle sensazioni. Vai sott’acqua e automaticamente inizi a pensare da dove posso entrare, per dove posso passare, a cosa porterà tutto questo, quali sono i pericoli. E vi dirò di più. Per tutto il tempo, mentre venivano recuperati i cadaveri, noi lavoravamo meccanicamente come robot, come se niente fosse accaduto. La componente emotiva in questo caso è praticamente assente. C’è un lavoro da portare a termine obbligatoriamente e nessuno oltre a te può svolgere questo compito.

Foto: Itar Tass

Quanti corpi ha recuperato lei da solo?

Un totale a persona non esiste perché lavoravamo in gruppi. Nel nostro c’erano 6 palombari. Di solito ci alternavamo. Tre uscivano sott’acqua e tre rimanevano su, dopodiché si cambiava. La nostra unità ha recuperato qualcosa come 30 corpi senza vita. Ma il conto è stato tenuto da chi era su a prenderli, per sapere quanti ancora ne restavano. Il nostro compito consisteva nell’ispezionare tutti i locali, fino all’ultimo, per essere assolutamenti sicuri che non ci fosse nessuno. Per caso qualcuno, che ufficialmente, secondo i documenti e i biglietti, non doveva trovarsi lì, si era accordato col capitano e si era ritrovato sulla Bulgaria. Per questo non ci fu uno stop e fine dell’operazione. La nave fu perlustrata fino all’ultima stanza, fino all’angolo più remoto.

In che modo era organizzato il vostro lavoro?

Sulla Bulgaria lavoravano contemporaneamente all’incirca 20 sommozzatori. Eravamo distribuiti per tutta la lunghezza della nave. Ognuno si occupava di una zona. Inizialmente il nostro gruppo era stato incaricato di trovare un possibile passaggio verso le principali cabine del ponte inferiore. Poi ci è toccato uno dei più difficili, il terzo ponte. Per arrivarci, bisognava attraversare tutti i locali precedenti, interamente bloccati dalle macerie. In tutto ciò, bisognava trascinarsi dietro la corda a cui eravamo legati insieme al tubo, attraverso cui passa l’ossigeno. Ancora, ci è toccato cercare la stanza giochi dei bambini. Non erano riusciti a trovarla per molto tempo e alla fine ci è riuscito il nostro gruppo. Io e il mio collega, il vicedirettore del dipartimento di immersione Evgeny Kochin, capimmo dai corpi che si trattava della stanza dei bambini. Smuovemmo uno dei cumuli di macerie e iniziarono a spuntare cubi e palline.

Trovaste molti corpi senza vita di bambini?

Sì. Fu un momento difficile quando trovammo il primo cadavere. Forse, alla persona impreparata non conviene sapere queste cose, ma il corpo del bambino poteva essere scambiato per quello di una bambola, tanto era piccolo, e aveva scarpette minuscole. Noi infatti pensammo fosse una bambola, ma quando ci avvicinammo e lo toccammo, sentimmo che era morbido: doveva essere un corpo. E quando fummo ancora più vicini, avevamo già capito che fosse un bambino sui tre anni. Fu un duro momento, senza dubbio. Ma lì per lì non elaborammo tali emozioni, per noi tutto era un compito da portare a termine. Lo trovammo, bene. Bisognava portarlo su. Solo sulla strada del ritorno per Mosca iniziai a realizzare cosa avessi visto laggiù. In tutto recuperammo quasi 7 bambini, una cifra enorme, 7 piccole intere vite.

Vi toccò anche comunicare con i parenti delle vittime?

Sì, dovemmo. Ogni volta che tornavamo alle tende per rifornire le bombole o riposare, i loro cari erano sulla riva. Stavano lì tutto il tempo ad aspettare e ad accarezzare la speranza che qualcuno fosse vivo. Si avvicinavano a noi e ci dicevano: i bambini, cercate di trovarli, magari qualcuno è vivo. Noi stessi abbiamo creduto fino all’ultimo che ci fossero dei superstiti. Non è così raro che una persona esca viva da una tale catastrofe. Circa un anno fa, in America, ci fu il caso di un peschereccio affondato. Il primo sommozzatore si immerse solo dopo 60 ore dall’accaduto e dopo altre 10 ore trovò un sopravvissuto nell’intercapedine sotto lo scafo della nave, come fosse in una campana. Noi, invece, abbiamo iniziato a lavorare il secondo giorno dopo l’affondamento della nave e credevamo davvero che anche in questo caso, da qualche parte, ci fosse qualcuno ancora in vita. Ma aprendo ogni stanza, capivamo che no. Non ce n’erano. Tuttavia, a nessuno è venuto mai in mente di dire ai parenti che sicuro non ci fossero sopravvissuti. Tutti abbiamo sperato fino all’ultimo.

E a quali altre difficili operazioni le è toccato partecipare?

Praticamente a tutte quelle degli ultimi anni. Per esempio, alla centrale idroelettrica Sayano-Sushenskaya. Lì la complessità del lavoro dipendeva dalla fuoriuscita di carburanti, combustibili e lubrificanti che rendeva l’ambiente corrosivo; per cui, l’attrezzatura subacquea di gomma e neoprene non era adatta, si sarebbe rovinata al solo contatto. Tuttavia, incuranti, già dal primo giorno ci immergemmo e iniziammo a cercare i corpi. Inoltre, ho anche partecipato alle operazioni di soccorso  durante l’alluvione nella regione di Khabarovsk. Ogni anno, poi, scendiamo nelle acque di Volgograd per eliminare munizioni inesplose e mine. Si sono verificati momenti difficili: ci sono tali munizioni, con cui inizi a dialogare come si fa con la donna amata, chiedendo loro di comportarsi come è giusto e non come vogliono. Per non parlare di singoli casi di macchine affondate o pescatori dispersi. Ci fu una volta che ritornando da Smolensk, ricevemmo il signale che non molto lontano, a Ryazan, furono rinvenute delle munizioni. Andammo sul posto, iniziarono le operazioni e ne trovammo tantissime. 145, per l’esattezza. Ogni giorno c’è qualcosa di nuovo. Se non lavoriamo, ci alleniamo per non perdere la forma. Almeno quattro volte l’anno conduciamo delle esercitazioni, per essere sempre pronti in caso di emergenza. Diversamente, potrebbero sorgere dei problemi: un organismo fuori allenamento da molto tempo emette gas che sott’acqua saturano il corpo.

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