“Se non ingrassi, lontano non vai”, “Cibo non condito è duro da masticare”. Credete che questi proverbi parlino delle tangenti? Nient’affatto, si riferiscono alla cultura dei regali ai funzionari pubblici in Russia, fenomeno antico quanto complesso. “Podarok” (“regalo”), “kormlenie” (letteralmente “il dare da mangiare”; cioè il “beneficio” concesso ai boiardi), “pochest’” (“regalia”), “mzda” (“compenso”, ma anche “mazzetta”) “likhvá” (“appropriazione indebita” o “tassi usurari”, ma anche “concussione”) e, infine, “vzjatka” (“tangente”; “bustarella”) sono tutte cose diverse. Qual era la differenza e dove iniziava la violazione della legge? Proviamo a capire.
“L’arrivo dei voivodi”, dipinto (olio su cartone) del 1909 del pittore Sergej Ivanov (1864-1910)
Sergej IvanovServire un principe significa servire Dio. Tale era il ragionamento dei russi, da sempre convinti che il potere viene dato da Dio. I guerrieri erano orgogliosi di servire il loro principe, per il quale erano pronti a sacrificare la vita; il sovrano, a sua volta, li trattava come suoi figli: li nutriva, vestiva, dava loro la casa. Insomma, concedeva tutto, tranne il denaro.
“A differenza dei servizi resi al padrone, lavorare per soldi era considerato umiliante”, scrive la storica Olga Kosheleva. “Nella lingua russa la parola ‘rabota’ (‘lavoro’) deriva da ‘rab’ (‘schiavo’, ‘servo’), e ha quindi una connotazione dispregiativa (come del resto ‘pekhota’; ‘fanteria’, ‘nizota’, persona di origine bassa…)”. Di conseguenza, “lavoravano” soltanto coloro che appartenevano ai ceti inferiori, o chi era costretto a farlo perché pieno di debiti. Per le persone di origini nobili, invece, era sufficiente essere retribuiti dal principe, “omaggiati” (con doni) dal popolo e, probabilmente, trarre soddisfazione morale dal servizio.
“L’isba del comando”, dipinto del pittore russo Sergej Ivanov. Nella Rus’ dei voivodi la “prikaznaja izbá” era organo di amministrazione militare-territoriale
Sergej IvanovLa particolarità di tali rapporti consisteva nel fatto che non solo i popolani offrivano “omaggi”, ma anche il principe, talvolta, poteva concedere una “gratifica”: una pelliccia, un cavallo, un’arma o una botte di vino a qualcuno che se lo era meritato. “Questi doni servivano a rafforzare il legame tra padrone e servitore, perché a quest’ultimo davano la sensazione di essere parte del sistema di potere”, spiega la Kosheleva. Talvolta si donavano dei villaggi con i contadini, o anche intere città. Tuttavia, un conto era donare al servitore un villaggio che gli garantiva un reddito, in quanto diventava padrone dei contadini (e del loro lavoro), e un’altra cosa era mandarlo (come rappresentante del principe) a dirigere una provincia. In quest’ultimo caso, il rappresentante doveva essere dalla provincia “nutrito”.
Nell’ambito di tale sistema, denominato “kormlenije” (“il dar da mangiare”), i funzionari che giungevano nelle province erano mantenuti dagli abitanti. Era dovere del funzionario amministrare la giustizia, leggere gli editti del sovrano, intraprendere misure nel caso di calamità naturali e provvedere all’ordine. Per questo, tre volte all’anno, gli abitanti erano tenuti a rifornirlo con pane, carne, formaggi, avena e fieno per i cavalli, e con tutto il resto. In più, i “nutriti” svolgevano funzioni erariali: incassavano spese processuali, diritti doganali, imposte sul reddito e aliquote pagate dagli esercenti, da chi praticava il commercio all’ingrosso e da altre categorie. È con questi soldi che il funzionario manteneva la famiglia e la servitù, oltre, naturalmente, a mandare a Mosca una grande parte di quanto veniva raccolto.
Tutto ciò era perfettamente legale. Ma allora, che cos’era una tangente?
Ivan il Terribile sostituì il sistema di sostentamento dei funzionari (“kormlenije”) con un sistema di voivodati. Una delle cause di questa decisione fu il comportamento dei rappresentanti che, spesso, non facevano altro che derubare gli abitanti. Con il nuovo sistema, i voivodi e gli strelizzi (militari del corpo speciale) dovevano essere regolarmente stipendiati. Il problema però era che, in realtà, lo stipendio non si erogava con regolarità, e tra un pagamento e altro ci poteva essere una differenza assai notevole. Di conseguenza, il sistema del “kormlenije” si rivelò duro a morire. Nel XVI secolo gli uffici pubblici in Russia continuavano a funzionare sulla base dei cosiddetti “omaggi”.
“L’anticamera di un ufficiale giudiziario alla vigilia di una grande festa”, quadro del 1837 del pittore Pavel Fedotov (1815-1852)
Pavel FedotovI funzionari, i voivodi, i podestà delle circoscrizioni giudiziarie lavoravano quasi senza sosta. Ivan Pososhkov, un letterato dell’epoca di Pietro il Grande, paragonava il loro lavoro all’abnegazione monastica. “Puoi andar a casa [soltanto] verso notte… Devi venire in ufficio prima dei richiedenti ed essere l’ultimo a uscirne… E devi essere sempre presente in cancelleria”, egli insegnava ai funzionari esordienti; gli stessi che si “nutrivano” con le offerte dei cittadini.
Nel XVI-XVII secolo non sempre al funzionario si offrivano dei soldi. La gente portava pesce, caviale, miele pregiato, pellicce, vestiti. Se l’omaggio veniva accettato, c’era speranza, mentre restare con un “palmo di naso” (in russo si ha un gioco di parole tra il nos”, la “cosa portata in omaggio”; parola che viene dal verbo “nosit”, cioè “portare”; e “nos” come “naso”) significava un esito negativo. C’è da notare che la legge non prevedeva punizione per chi accettava un tale “nos” (omaggio).
I problemi li potevano avere soltanto coloro che, oltre all’omaggio, si facevano pagare anche una “mzda”, cioè una somma extra, per il semplice fatto di acconsentire a fare un lavoro che erano comunque tenuti a fare!
Illustrazione per “L‘ispettore generale” di Nikolaj Gogol, realizzata da Aleksandr Konstantinovskij (1906–1958)
A. KonstantinovskijEra anche vietato accettare soldi in cambio di “posul” (promessa), cioè non il semplice impegno a esaminare la faccenda, bensì la promessa di garantirne l’esito voluto. Era il limite, oltre il quale cominciava il “likhoimstvo” (“concussione”), giudicato, appunto, come atto illegale. “Lichoimstvo” deriva dalla parola “lichoj” (fuorilegge) e significava una decisione ingiusta, presa in cambio di un compenso indebito (tangente).
Tuttavia (sorpresa!), nella Russia antecedente a Pietro il Grande, nessuno era mai riuscito a sradicare la corruzione. Il popolo credeva che “pagare un extra non fosse corruzione” e che “ogni lavoro deve essere ricompensato”. La gente continuava a portare soldi e cibo per non “restare con un palmo di naso”. I funzionari erano pochi e le istanze tante! Si poteva forse venire senza un “pensierino”, dato che gli altri sicuramente lo portavano?
L’imperatore Pietro il Grande viene indicato come il più grande nemico della corruzione in Russia. Fu lui a istituire il fisco e la procura. Il 24 dicembre 1714 Pietro I emanò l’editto “Sulla proibizione delle tangenti e delle promesse, e sulla punizione di tali reati”.
“La principessa Praskovja Grigorevna Jusupova prima della sua tonsura”, dipinto del 1886 del pittore Nikolaj Nevrev (1830-1904)
Nikolaj Nevrev“Visto che i casi di concussione di vario tipo si sono moltiplicati”, scriveva l’imperatore, “ai dipendenti di tutti i ranghi viene proibito di prendere impegni a nome dell’Ufficio e di accettare dal popolo altri soldi, oltre al loro stipendio”. La punizione era corporale, e poteva arrivare fino alla pena di morte.
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Servì a qualcosa l’editto imperiale? No, di certo. Il ricercatore Dmitrij Serov rileva che soltanto una piccolissima parte delle indagini, svolte dagli uomini del fisco (investiti con speciali poteri per indagare sui casi di corruzione), finiva in tribunale. D’altronde, lo stesso Pietro sapeva che il ladro più grande dell’Impero era il suo braccio destro, il principe Menshikov, ma non ci poteva far niente.
Dopo la morte dell’imperatore, le sue leggi anticorruzione furono, quasi subito, dimenticate. Il 23 maggio 1726 l’imperatrice Caterina I (la sua vedova salita al trono) firmò il decreto “Sull’erogazione degli stipendi ai funzionari di collegio…”, che, in sostanza, ufficializzava i doni ai pubblici dipendenti (che non chiameremo tangenti, anche se, naturalmente, lo erano), sebbene entro limiti “ragionevoli”. Lo stipendio spettava soltanto ai funzionari dei collegi (ministeri). Tutti gli altri, non incorporati nella Tavola dei ranghi, dovevano arrangiarsi con le offerte dei richiedenti, senza però, come sanciva generosamente il documento, “chiedere troppo”.
Riproduzione del dipinto “Nell’isba della gubá” del pittore Aleksej Maksimov (1870-1921). La gubá era nell’antica Russia un distretto giudiziario territoriale all’interno del quale operava la giurisdizione penale di un “gubnoj starosta”
SputnikLa storiografa Elena Korchmina cita un certo Vasilij Kozlov, voivoda e assessore di collegio, che nel 1764 diceva a proposito del problema della corruzione in Russia: “Non avevo alcuna possibilità di contrastare questi pizzi” (estorti dai dipendenti a lui subordinati, perché i dipendenti non erano retribuiti dal governo). Perché se il voivoda Kozlov avesse stabilito una “tariffa” per ogni servizio reso da un dipendente, lui stesso sarebbe stato punito per abuso d’ufficio, visto che la legge non specificava in alcun modo un prezzo “lecito”.
Questo sistema, così ambiguo, sopravvisse per tutto il XVIII secolo e ancora nel XIX continuava a proliferare. Dare una tangente al funzionario, ai russi sembrava una cosa naturale. Dobbiamo riconoscere che una certa logica c’era.
Faddej Bulgarin, giornalista e informatore della polizia, che visse ai tempi di Pushkin, scrisse: “La differenza consiste in quello che fanno. Alcuni chiedono soldi e rovinano chi è nel giusto, se non vengono pagati; altri fanno il loro dovere e se poi, alla fine, gli viene dato qualcosa per l’operato giusto, non disegnano l’offerta”. E se uno è bravo, perché non retribuirlo? Tanto più che non ti lascia “con un palmo di naso”…
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