Pietro Mennea alle Olimpiadi di Mosca 1980 (Foto: AFP/East News)
L’ottava corsia sulla pista d’atletica è riservata alle lepri. Atleti che corrono parte della gara a ritmi folli, riferimenti per i favoriti alla vittoria, prima di calare e rialzarsi a pochi metri dal traguardo. Soprattutto in una gara olimpica. Pietro Mennea, scomparso il 21 marzo 2013 a Roma a 61 anni per un male incurabile, oro nei 200 metri alle Olimpiadi di Mosca 1980, era una lepre che l’anno prima aveva scosso il mondo dello sport con 19’72, record sui 200 metri alle Universiadi di Città del Messico. Diciassette anni dopo il texano Michael Johnson scenderà a 19’66, prima del 19’32 da fantascienza stampato pochi mesi dopo, ai Giochi di Atlanta ’96.
Ai Giochi sovietici, nella prima olimpiade in mondovisione, Mennea era il favorito. E il suo avversario principale, Alan Wells, scozzese, che a Mosca era già medaglia d’oro nei 100 metri, si trovava nella settima, al suo fianco.
"Poco dopo le otto di sera del 28 luglio 1980, con una temperatura di 23 gradi, l'umidità del 56 per cento, il vento zero, mi presentai alla finale dei 200 metri -, scriveva Mennea nel suo libro "L'Oro di Mosca" (176 pagine, Delta 3 Edizioni). - I miei rivali erano i cubani Silvio Leonard e Osvaldo Lara, i polacchi Woronin e Dunecki, il tedesco orientale Hoff, il giamaicano Quarrie e il britannico Wells. A me toccò l'ottava corsia cioè l'ultima, a Wells la settima…”.
I migliori della specialità, ovvero gli americani, non corsero a Mosca. Sessantacinque nazioni non parteciparono ai Giochi aperti dal leader sovietico Brezhnev. Tra cui Germania Ovest, Giappone, Cina. Oltre al blocco dei Paesi arabi. Pochi mesi prima, dicembre 1979, l’Urss inviava 70mila uomini in Afghanistan, sostenendo che Kabul avesse chiesto aiuto contro i ribelli musulmani appoggiati da Pakistan, Cina e Usa.
Un attacco condannato da Onu e americani. Che disertavano le Olimpiadi, chiedendo ai Paesi dell’area atlantica di fare lo stesso. E decine di altre nazioni decisero di dissociarsi contemporaneamente dal boicottaggio e dal supporto con forme diverse di manifestazione.
L’Italia sceglieva un compromesso. A Mosca niente atleti appartenenti ai gruppi sportivi militari e gli altri 163 sfilarono con la bandiera del comitato olimpico. Mennea era quinto a metà gara, dopo una pessima partenza. Poi, sesto. Con il rischio di un drammatico flop, dopo la delusione sui 100 metri, fuori in semifinale.
Poi, la reazione. Li sorpassò tutti in 20 metri, vincendo a braccia alzate, con gli occhi fuori dalle orbite. “Gli ultimi cinque metri sono il frutto di come ho trascorso le 48 ore che hanno preceduto la finale. Lo spazio temporale della mia vita di cui vado più orgoglioso”, dirà poi Mennea. S’intrecciavano così una delle singole prestazioni più grandi della storia dello sport con l’edizione più controversa dei Giochi Olimpici.
Una polaroid d’immortalità sportiva. Con l’Italia che si metteva dietro il mondo. “Ho partecipato a ben cinque edizioni dei Giochi e già questo per un velocista rappresenta un record, la medaglia d'oro vinta a Mosca era la mia terza partecipazione alle Olimpiadi. Non pensavo che ne avrei disputate altre due (Los Angeles 1984 e Seul 1988), ma posso affermare che l'oro olimpico di Mosca è stato un traguardo desiderato e voluto con grande forza, e quel 28 luglio 1980 alle ore 20.10 – confidava il fuoriclasse azzurro - ho coronato il mio sogno da sportivo, con rabbia e determinazione”.
E se lo statunitense Carl Lewis sarà poi considerato negli anni Ottanta il “figlio del vento”, Mennea da Barletta (Puglia), soprannominato “La freccia del Sud”, era davvero inafferrabile come il vento. Sulla pista d’atletica, nella vita di tutti i giorni. Un uomo complicato, anti-sistema, senza peli sulla lingua, ricco di spigolature, quattro lauree, autore di 20 libri.
Che ha scritto la storia italiana dell’atletica, in Urss, in mondovisione, assieme a Sara Simeoni, oro nel salto in alto.
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