Noi, russi emigrati all'estero

Da Strasburgo a Berlino, lontano da casa per inseguire un sogno. Le scelte di alcuni cittadini della Federazione che hanno lasciato il proprio paese per rincorrere nuove ambizioni

Nella storia della Russia si sono susseguiti vari momenti critici in cui i suoi cittadini, non condividendo quello che stava succedendo in patria, si sono visti costretti a lasciare il Paese. Chi solo per un periodo, chi, invece, per sempre. È così che, in epoche diverse, molti nostri connazionali hanno iniziato una nuova vita nelle vicine capitali europee di Praga, Berlino e Parigi, o hanno trovato rifugio negli Stati Uniti e nei Paesi del Sud. Anche oggi, la gente lascia il Paese, ognuno con le proprie ragioni. Spesso succede che anche chi non avrebbe mai pensato di emigrare, una volta essersi recato all'estero per lavoro, non abbia poi così tanta fretta di tornare in patria.

Elena Yurkina, avvocato, vive a Strasburgo

Foto: archivio personale

Sono nata e cresciuta nella periferia Sud di Mosca. Durante gli ultimi due anni di scuola, ho frequentato in parallelo dei corsi di preparazione presso l'Università russa dell’amicizia tra i popoli, dove sono poi entrata, alla facoltà di giurisprudenza. Nel corso del mio dottorato ho studiato approfonditamente la Corte europea per i diritti dell’uomo, dedicando a essa anche la mia tesi dottorale. Proprio in quel periodo alla Corte stavano cercando un avvocato ed io decisi di presentare domanda. Superai la prova scritta e il colloquio, e un paio di anni dopo mi hanno offerto un lavoro lì. Si tratta di un programma speciale della Corte europea, il cui scopo è quello di formare giovani professionisti nell’ambito dei diritti umani di modo che essi possano poi dedicarsi a ciò una volta tornati in patria.

Molte delle denunce che arrivano alla CEDU (Corte europea dei diritti dell'uomo) vengono dichiarate inaccettabili. Nei primi tempi, quando avevo appena iniziato a lavorare e ad analizzare le denunce, mi sembrava che in Russia stesse andando tutto male. Poi però con il tempo, mi sono abituata e ho capito che non tutti stanno male, né non tutto va male. Il fatto è che spesso la gente vede nella CEDU una sorta di panacea.

La differenza principale tra il ritmo di Mosca e quello di Strasburgo sta nella rigida distinzione che sussiste tra l’orario di lavoro e il tempo libero. La maggior parte dei negozi chiude alle 7 di sera, alcuni chiudono all'ora di pranzo e quasi nessuno è aperto la domenica. Nei ristoranti si può pranzare solo dalle 12.00 alle 14.00, mentre la cena viene servita di solito a partire dalle 19.00. Nel resto del tempo risulta possibile, di norma, solo prendere un panino per strada. Anche presso la Corte europea l’orario di lavoro è piuttosto ben definito, anche se in maniera leggermente più flessibile. Delle 8 ore lavorative giornaliere, bisogna essere assolutamente in ufficio dalle 9.00 alle 12.00 e dalle 14.30 alle 16.30, le restanti ore di lavoro sono a discrezione del lavoratore. La maggior parte delle persone qui vive in appartamenti in affitto. A Strasburgo si possono trovare degli studi a partire da circa 300-600 euro al mese, i bilocali si aggirano sui 500-800 euro mensili, mentre i trilocali a partire dai 700 euro in su (a seconda della zona e dalle condizioni in cui versi l’appartamento). Oltre a ciò, bisogna pagare la manutenzione della casa e le varie spese di luce e gas.

Il mio contratto finisce nella primavera del 2015, dopodiché dovrò cercare un nuovo lavoro. Mi piacerebbe continuare a lavorare in un'organizzazione internazionale, è interessante poter comunicare con persone provenienti da diversi Paesi. In Europa le possibilità di trovare un lavoro del genere sono maggiori, ma non scarto l’idea di tornare a Mosca per lavoro qualora l’offerta sia interessante.

Aleksandr Mamontov, direttore generale del Festival internazionale del cinema di San Pietroburgo "Festival of Festivals" e direttore progetti presso la compagnia cinematografica “Rusfilm”, vive a Berlino

Foto: archivio personale

Dietro alla scelta di emigrare, ci devono essere sempre delle ragioni ben precise, altrimenti la gente rimane e continua a fare la propria vita dove si trova. Io non riuscivo a lavorare e per questo ho dovuto lasciare il Paese. È già da cinque anni ormai che San Pietroburgo non finanzia più il nostro festival. Come se non bastasse, le organizzazioni che si occupano di cultura non hanno poi nemmeno un’idea chiara di che cosa essa sia. I tedeschi, al contrario, hanno aperto per me a Berlino la società “Rusfilm” ed io mi dedico alla promozione dei nostri film ai festival tedeschi e all’organizzazione della Settimana del cinema russo in Germania.

Mi capita spesso di sentire gente per strada parlare in russo. Tuttavia, personalmente, non conosco nessun russo che si sia trasferito qui. Mi relaziono perlopiù con tedeschi. I russi che si trasferiscono adesso a Berlino hanno un orientamento culturale diverso rispetto a quelli che emigravano dalla Russia negli anni ‘20 del XX secolo. La maggior parte delle persone che si trasferiscono qui adesso lo fanno per i sussidi. La vita a Berlino è 10 volte meno cara che a San Pietroburgo. Io, personalmente non ho nessun problema a livello di alloggio: possiedo un appartamento tutto mio.

A Berlino la sicurezza sociale è palpabile. Essa non si esprime solo in sussidi o denaro, si esprime anche nelle cose più semplici: se si arriva alla fermata dell’autobus e sul tabellone c’è scritto che l’autobus arriverà tra cinque minuti, significa che arriverà esattamente tra cinque minuti.

Aleksandra Dobryanskaya, giornalista, vive a Oxford, Ohio

Foto: archivio personale

Presto sarà un anno da quando siamo arrivati negli Stati Uniti. A Mosca, dove vivevamo prima di trasferirci, mio marito si dedicava a indagini anti-corruzione presso la "Transparency International Russia". Tutto è iniziato quasi per scherzo: mio marito era dovuto andare in America per una conferenza e lì gli proposero di tenere un corso presso un’università. All’inizio ci ridemmo su per dimenticarcene quasi subito, finché poi non è stata approvata la cosiddetta "Legge sulle agenzie straniere" e per mio marito, sul lavoro, le cose si sono complicate. Abbiamo così accettato l'invito, ripentendoci però più volte che era solo una soluzione “temporanea”.

Il contratto di lavoro presso l'università era di un anno, con possibilità di prolungamento. All’inizio della nostra nuova vita negli Stati Uniti, questa possibilità ci sembrava, tuttavia, una presa in giro: la città in cui viviamo, infatti, potrebbe essere l’illustrazione perfetta alla voce “noia” sul dizionario. Inizialmente, poi, non avevamo neanche amici e, come se non bastasse, ci eravamo trasferiti in pieno inverno, con un freddo spaventoso. Poi, però, ci siamo poco a poco abituati. L'inverno è passato, abbiamo iniziato a fare amici e ci siamo lasciati conquistare dalla vita culturale del luogo. Abbiamo scoperto un lato nuovo dell’America ed è così che, un paio di settimane fa, abbiamo deciso di prolungare il contratto.

La nostra città è abitata da due categorie di persone: studenti e insegnanti. Per fare amicizia con gli studenti, è indispensabile bere, tuttavia, dal momento che noi non beviamo, non ci è andata così bene con loro. Tra gli insegnanti, invece, abbiamo trovato della gente davvero favolosa.

A Oxford, abbiamo affittato la casa di un professore che ora insegna in Germania (stare in affitto qui è molto più conveniente che a Mosca.) Per il momento non ho ancora cercato lavoro negli Stati Uniti, innanzitutto perché per fare ciò è necessario chiedere permesso e poi perché continuo ancora a collaborare come autrice con diverse case editrici moscovite.

Da quando mi sono trasferita, nella mia testa si sono susseguiti milioni di pensieri: sulla Russia, sugli Stati Uniti, ma anche su molte altre cose. Posso solo dire che adesso vivo molto meglio con me stessa. Anche se so che ciò è chiaramente legato al cambiamento e soprattutto al fatto che le nuove circostanze ed esperienze sono sempre una buona medicina per l’ego indolenzito: contribuiscono alla sua evoluzione.

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