Il sogno? Diventare capitano di una barca

Cresce in Russia la passione per le barche (Foto: Rusarc)

Cresce in Russia la passione per le barche (Foto: Rusarc)

Nuove tendenze. Aumenta sempre di più il numero di possessori di una patente nautica per pilotare yacht. Tra scuole rigorose e voglia di avventura

Non ho mai sognato di diventare capitano, né mi è mai piaciuto viaggiare per mare e le barche mi sono sempre state indifferenti. Ma un anno fa sono stata invitata in Grecia a un forum sugli investimenti finanziari e alla fine dell’evento abbiamo fatto un giro in barca a vela per le isole. Già a metà percorso mi ero resa conto di non poter più vivere senza il mare.

Così al mio ritorno a Mosca mi sono iscritta a una scuola nautica dove s’insegna seguendo il metodo Yacht Training (Iyt). Gli studenti non devono avere già alle spalle esperienze di navigazione e i corsi sono simili a quelli che si frequentano per conseguire la patente automobilistica. Il prezzo, tra l’altro, è analogo. Circa 1.000 dollari per il corso teorico e 1.600 euro per i 10 giorni di pratica con l’aggiunta del costo dei biglietti aerei.

In Russia i test da superare per diventare uno yachtsman sono meno numerosi che nel resto del mondo. Qui si studia da subito per conseguire il titolo di “skipper costiero”. Gli studenti frequentanti alla fine del corso hanno già il diritto di prendere in charter un’imbarcazione. Le lezioni di teoria, della durata di tre settimane, si svolgono nei giorni festivi. Dopo una settimana lavorativa stare seduti per 7 ore dietro un banco non è facile.

Le regole di navigazione per i natanti, i segnali, gli allarmi sonori antinebbia, la meteorologia, le carte geografiche. A volte ci si sentiva come dei bambini che dopo tanti sforzi riescono a capire come mai sulla mappa sono indicati tanti puntini e tante cifre e in che cosa i meridiani si distinguono dai paralleli o perché è necessario utilizzare il compasso. Imparare il nome di tutti i nodi e dei congegni, senza trovarsi a bordo di una barca, era la cosa più complessa.

L’esame finale l’abbiamo sostenuto alla fine di novembre; quello pratico in aprile. Siamo atterrati sul Mar di Marmara dove abbiamo noleggiato cinque barche. Noi studenti siamo stati divisi in squadre. A bordo del nostro yacht di 39 metri “Ice cream” eravamo in quattro: Natasha, una biondina esile, originaria di Perm; Edik, un imprenditore quarantenne e Grisha, uno studente di 22 anni. 

Tutti gli studenti, eccetto me, salivano a bordo di una barca per la prima volta e quindi avevano bisogno di essere addestrati.

Il primo giorno abbiamo preso la barca in charter e acquistato dei viveri. Il primo punto di destinazione era il villaggio di Ekincik. Natasha ha tracciato il percorso sulla mappa, sotto la guida del nostro istruttore. Siamo salpati, sforzandoci di capire di capire qual fosse la cima giusta e come si chiamava. Gli schemi dei manuali sono assai diversi dalla realtà. Confondevamo continuamente le cime  tra loro e anziché afferrare quella per cazzare la randa afferravamo quella che reggeva la passerella. Cercavamo di capire la direzione del vento e che cosa comunicare attraverso la radio all’operatore della marina.

Il giorno seguente abbiamo imparato a ormeggiare e a gettare l’ancora. Durante l’ormeggio dovevo saltare sulla banchina. Mi sono agganciata, ma senza risultato. Cercavo di rimediare, ma la cima d’ormeggio mi scivolava tra le dita. La barca pesava 10 tonnellate e si correva facilmente il rischio di spezzarsi le dita, ma alla fine è andata bene. Del resto, le escoriazioni alle dita hanno insegnato a me e ai miei compagni quanto sia importante essere estremamente attenti.

La sera si è capito che il tempo si sarebbe guastato e che uscire dalla baia il mattino sarebbe stato pericoloso. Prima di pranzo le onde avevano raggiunto la banchina e scendere dalla passerella era molto difficile. L’istruttore anziano diede ordine di prendere i test di controllo e di andare insieme nel ristorante locale a risolverli.

All’ora di pranzo il mare si era un po’ calmato e abbiamo deciso di prendere il largo. Chiusi tutti i boccaporti, ci siamo equipaggiati e  abbiamo lasciato i cavi d’ormeggio. Subito dietro il promontorio ci attendeva una sgradevole sorpresa: le onde, alte 5-6 metri, ci facevano sobbalzare trascinandoci giù. Il vento soffiava a 25-30 nodi. La tempesta  era di 7 gradi. Abbiamo indossato i giubbotti di salvataggio e dispiegato le vele. Ero assalita dal mal di mare, mi appisolavo in piedi. Volevano mettermi al timone, ma non riuscivo a tenerlo. Circa quattro ore dopo mi hanno lasciato scendere in cabina e lì mi sono addormentata.

Mi hanno svegliato tre ore più tardi, dicendo che stavamo per ormeggiare. Le onde erano quasi sparite, ma pioveva. La banchina della città di Fethiye era proprio lì accanto. I turchi e tedeschi, vedendoci comparire dal mare in tempesta, ci avevano soprannominato crazy Russians.

Ma la parte più difficile era quella che ci attendeva alla fine del corso: la traversata notturna. Per diventare skipper occorre avere percorso almeno 30 miglia di navigazione notturna, e a noi ne sarebbero toccati 40. Sulla carta erano indicati numerosi fari, ma raggiungerli era estremamente difficile. Il primo e più vicino non funzionava, ma erano visibili le luci di un aeroporto.  

Tuttavia a poco a poco riuscimmo a capire che cosa fare. Prima dell’alba insieme a un compagno salii per montare la guardia. I nostri compagni di corso ci mostrarono il faro che cercavamo e la rotta. Un’ora più tardi spuntò l’alba e di colpo i fari si spensero. Scorgemmo davanti a noi la costa su cui puntavamo; era deserta, senza nessun centro abitato. Fummo presi dal panico.  

Ad ogni modo navigammo lungo la terraferma, cercando di capire dove ci trovassimo. All’improvviso avvistammo dietro la barca un’isola e qualcosa mi diceva che doveva essere Rodi. Verificammo che si trattasse davvero di Rodi, anche se non avremmo dovuto vederla. Prendemmo a sbandare in varie direzioni, ma il nostro istruttore, che si era appena svegliato, ci rimise sulla rotta giusta. Eravamo in preda al panico a cinque miglia dalla costa, ma il punto di destinazione si celava oltre il promontorio.

Le nostre avventure in mare si sono protratte per 10 giorni e al ritorno ho ottenuto la patente navale. Ora non mi resta che portare l’anello d’oro per aver doppiato Capo Horn o tatuarmi un’ancora dopo la traversata dell’Atlantico. Ma l’essenziale, di là dalle onde e dal vento, è aver trovato un gruppo di persone con cui continuare una vera amicizia anche sulla terraferma. 

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