Celebrazioni in occasione del Giorno della Russia (Foto: Aleksandr Makarov / Ria Novosti)
Ormai da quasi vent’anni in Russia è considerata una festa. Tutto iniziò il 12 giugno 1990, quando il Congresso dei deputati del popolo della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa (la RSFSR) votò per la Dichiarazione della sovranità statale. Le persone di oggi trovano difficile immaginarsi perché sia stato fatto. Tuttavia anche allora, nel 1990, più che il suo contenuto, era chiaro il significato simbolico di questa Dichiarazione.
Prima di allora i parlamenti delle Repubbliche dell’Urss avevano adottato uno dopo l’altro le Dichiarazioni di sovranità e la RSFSR non poteva più restare in disparte. I delegati del Congresso votarono quasi all’unanimità per includere la questione nell’agenda del giorno. Il testo finale provocò non poche discussioni, perciò i lavori sul documento si protrassero per un mese e la Dichiarazione venne approvata il 12 giugno.
Nello stesso giorno dell’anno successivo, il 1991, furono fissate le prime elezioni del Presidente della RSFSR. Alla base della decisione stavano motivazioni sia contestuali sia ideologiche: da un lato, la squadra di Boris Eltsin temeva che spostare la data delle votazioni avrebbe intralciato la vittoria del candidato al primo turno; gli elettori si sarebbero dispersi tra ferie e case di campagna.
I motivi fondamentali però erano di altra natura; l’edificazione di un Paese nuovo poggiava su due mandati ideologici. Prima di tutto il ritorno alle tradizioni della Russia presovetica, vale a dire: la moda che prese piede allora tra i mercanti e i nobili (dappertutto iniziarono a spuntare le “gilde mercantili” e le “riunioni dei nobili”); il ritorno all’uso della parola “signore”; la bandiera tricolore che quasi subito iniziò a essere considerata la bandiera ufficiale della RSFSR, anche se fino all’agosto del 1991 non c’erano i fondamenti giuridici per affermarlo.
In un certo senso quanto stava accadendo era confrontabile con la situazione di allora dei Paesi dell’Est Europa. Le nazioni dell'ex blocco sovietico si erano scrollate di dosso il socialismo al grido di “torniamo in Europa”. L’idea del ritorno “al periodo pre-bolscevico” divenne il simbolo del nuovo potere russo. Non è nemmeno un caso che il 12 giugno 1991 ci sia stato un referendum affinché Leningrado tornasse a chiamarsi San Pietroburgo.
Allo stesso tempo però i creatori dello Stato russo giocarono un po’ ai padri fondatori statunitensi, che avevano fatto nascere un Paese dal nulla. Così si spiega la decisione di fare diventare festa nazionale il giorno di accettazione della Dichiarazione, un documento più che altro simbolico.
Gennady Burbulis, principale ideologo ai tempi del primo Eltsin, attribuiva un’enorme importanza ai simboli. Bisognava eleggere il Presidente della nuova Russia il giorno dell’adozione della Dichiarazione di sovranità, era parte della sua concezione: noi costruiamo un nuovo governo, uno spazio statale e sociale con le sue tradizioni, quindi le date combacianti devono per forza portare in sé un carico ideologico.
Il Congresso dei deputati del popolo della RSFSR – le repubbliche che formavano l’Urss – all’inizio diede manforte a questo gioco e ne fu addirittura un diretto partecipante. Il 12 giugno divenne così una festa, secondo il decreto del Consiglio superiore del 1992. Nel 1994 Boris Eltsin ribadì la decisione con un suo decreto: il Giorno del Paese non poteva più essere stabilito da un decreto del Consiglio superiore, che all’epoca, nell’ottobre del 1993, era già stato liquidato. Ma l’entusiasmo per la data era già andato scemando.
Non è un caso che la denominazione informale, “Giorno dell’Indipendenza”, abbia scatenato molte domande.
Prima di tutto: indipendenza di chi e da chi. Nel giugno del 1990 nessuno si poteva nemmeno immaginare che la RSFSR potesse uscire dall’Urss. Il crollo dell’Unione Sovietica sembrava impensabile. La Dichiarazione di sovranità era solamente un elemento del gioco politico tra la dirigenza dell’Unione e la squadra di Eltsin.
La seconda domanda tocca il ruolo della dirigenza russa nella questione del disfacimento dell’Urss. Verso la metà degli anni Novanta la scomparsa del Paese, se ancora non veniva definita “la più grande catastrofe geopolitica del Novecento” (così la chiamò in seguito Vladimir Putin quando divenne Presidente), era nondimeno percepita in questo modo da molti. Proprio allora si diffuse nella società una certa nostalgia per l’Unione Sovietica. In quel momento il peso specifico dei democratici radicali della squadra di Boris Eltsin diminuì sempre di più. La festa serviva alla nuova generazione della cerchia di Elstin a conferma del loro diritto al potere. Ma nel Cremlino di Boris Nikolaevich non amavano ricordare le circostanze in cui si era verificata la salita al potere e gli slogan di inizio anni Novanta.
Proprio per questo, a metà del decennio, il 12 giugno diventa un giorno di festa che tutti accolgono con piacere senza capirlo molto, uno stacco tra le festività di maggio e le ferie estive.
Eppure più si va avanti, più diventa solenne e ufficiale. Ecco come il sito ufficiale della festa descrive il quinquennale del 12 giugno: “I capi di quasi tutte le regioni del Paese alla vigilia di questa data hanno emanato un decreto al fine di organizzare manifestazioni celebrative in onore del Giorno dell’Indipendenza. Per la prima volta si è trattato di una vera festa. La capitale della Russia è stata abbellita da cartelloni e manifesti pubblicitari con la scritta Buon Giorno dell’Indipendenza. In alcune città si sono svolte iniziative e concerti in occasione del giorno di festa. Nel Cremlino invece si è tenuta la cerimonia di consegna del Premio di Stato”.
Lo strappo finale dall’idea originaria della celebrazione è avvenuto nel 1998, quando Boris Eltsin rinominò la giornata, iniziandola a chiamare semplicemente “Giorno della Russia”. Le Dichiarazioni, le sovranità, i padri fondatori e la marcia nel passato prebolscevico erano rimaste ben indietro. In futuro ci attendevano il default, la conclusione della guerra in Cecenia, Vladimir Putin e la nuova Russia ancora da scoprire.
L'autore è vice caporedattore della rivista “Kommersant”
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