Una donna con un ritratto di Iosif Stalin partecipa al corteo dei comunisti nel Giorno del Difensore della Patria, il 23 dicembre 2013 (Foto: Ap)
Il 5 marzo 1953 venne data la notizia della morte di Iosif Stalin, il leader del popolo sovietico. Il 6 marzo la sua salma venne esposta per l'ultimo omaggio nella sala delle Colonne della Casa dei Soviet, nel centro di Mosca.
Centinaia di migliaia di persone, in lacrime per il dolore e lo spavento, andarono a rendere l'estremo saluto. Molti vi si recarono in maniera organizzata, in cortei che radunavano il personale delle aziende o degli istituti scolastici. Il primo giorno di apertura della camera ardente avvenne una disgrazia: nella calca, in piazza Trubnaya, a causa di un "imbuto" che si venne a creare, morirono da qualche decina a qualche centinaio di persone. Il numero esatto delle vittime ancora oggi rimane sconosciuto.
Le testimonianze di chi rese a Stalin l'ultimo saluto.
Dalila Ovanesova,
nel 1953 era una scolara
Il giorno della morte di Stalin ci radunarono a scuola e ci
mettemmo in riga solennemente nel corridoio; suonava una marcia funebre.
Ricordo la guardia d'onore dei pionieri e dei giovani del Komsomol accanto al
busto di Stalin: i ragazzi stavano sull'attenti facendo il saluto militare. Piangevano
tutti, allievi e insegnanti. Io non piangevo, ma mi sentivo persa. Le lezioni
furono sospese e tutti tornarono alle loro case, in lutto. Quando arrivai a casa, però, percepii una sorta di segreta
gioia. Io magari ero anche dispiaciuta, ma vedevo quel grande entusiasmo,
quella gioia, gli occhi della mamma che brillavano, la vedevo energica, il suo
passo si era fatto leggero, il suo stato d'animo era quello di una liberazione
spirituale, di una gioia. Io chiamo mamma quella che in realtà era mia nonna e
che ha cresciuto me e mio fratello. Mio zio (il figlio della mamma), lo
scrittore Yuri Dombrovskij, era una vittima della repressione e in quel
periodo era rinchiuso in un lager. Ma la mamma a noi non diceva niente. Che cosa si poteva
dire a dei bambini a quel tempo? Avevo un'amica a scuola, Valja
Neskuchaeva, a cui i genitori avevano severamente proibito di fare amicizia con
me. "La mamma e il papà non vogliono che io sia tua amica, perché la tua
famiglia non è affidabile". Fu
proprio questa la parola che mi stupì allora; non ne comprendevo il
significato.
Aleksandra
Grigorieva, nel 1953 studentessa all'Istituto
di Pedagogia
Frequentavo il quarto
anno di Pedagogia nella città di Balej, nella regione Zabajkalskij. Ricordo
ancora che per il corso di Pedagogia dovevamo imparare una grande quantità di
citazioni da Stalin. In questo erano
molto severi. Durante una lezione bussarono alla porta dell'aula, l'insegnante
uscì e quando tornò in classe era come fuori di sé. Si sedette in cattedra,
nascose il viso tra le mani e scoppiò a piangere. Poi alzò il viso e disse
quasi sottovoce: "È morto Iosif Vissarionovich Stalin". Tutti noi ci
mettemmo a piangere. Nel nostro gruppo c'erano per lo più ragazze, i ragazzi
erano solo tre, ma piangevamo tutti. Io e due mie amiche affittavamo
una stanza in casa di un anziano. Era un vecchio comunista, aveva lavorato per
tutta la vita in una miniera d'oro. Quando tornammo dalle lezioni, era seduto
su una panchina davanti alla casa e piangeva: "E adesso, ragazze? Voi che
siete del Komsomol... come faremo ad andare avanti? È morto nostro padre".
E davvero, noi non sapevamo come continuare a vivere senza Stalin.
Viktor Erkovich,
nel 1953 era
uno scolaro
Nel '53 vivevo in un villaggio di operai vicino a
Nizhneudinsk, nella regione di Irkutsk. Andavo a scuola, frequentavo l'ottava
classe. Tutto il villaggio era letteralmente in singhiozzi. La gente non
piangeva, ma appunto singhiozzava senza trattenersi, in maniera spontanea. Pareva che la vita si fosse fermata. Per noi, che in quegli anni eravamo membri del
Komsomol, questo avvenimento era una tragedia ancor più terribile della Grande
Guerra patriottica (la Seconda guerra
mondiale, ndr). Ricordo che ero in classe, sdraiato sul banco, e capivo che
dovevo piangere, ma le lacrime chissà perché non uscivano. Ero preoccupato, ma
non del fatto che qualcuno mi guardasse e potesse pensar male. Io stesso mi
sentivo a disagio perché non piangevo in un momento come quello. Come se non
fosse una cosa normale. Allora cominciai a bagnarmi gli occhi con la saliva per
imitare una manifestazione di dolore.
Feliks
Kvasha, nel 1953 era studente dell'Istituto per Costruttori di strumenti e
macchinari industriali
Nel 1953 frequentavo il secondo anno di studi. Vivevo in un
convitto a Sheremetevo, appena fuori Mosca. Le camerate erano grandi, da una
ventina di persone, un po' come in caserma. La sera, dopo le lezioni, diedero
alla radio l'annuncio della morte di Stalin. Tutti scoppiarono a piangere,
erano sconvolti, sembrava che fosse arrivata la fine del mondo. Io non piangevo
forte, non mi strappavo i capelli. Il giorno dopo, verso mezzogiorno,
dall'istituto ci portarono alla camera ardente nella Sala delle Colonne, alla
Casa dei Soviet. Si formò un enorme corteo, saremo state 500 persone. Ci
ordinarono di non disperderci, dissero che ci avrebbero sorvegliati
attentamente. Ci radunammo sul piazzale in un paio d'ore e poi partimmo. All'inizio
avanzavamo piuttosto liberi, lentamente, fermandoci di tanto in tanto per
rifare l'appello. Verso sera ci accalcammo in piazza Trubnaya, dove c'era una
folla enorme, di migliaia di persone. A quel punto, ormai, del nostro corteo
non era rimasto più nessuno. Forse qualcuno se l'era svignata, e gli altri
erano stati semplicemente risucchiati dalla folla. Restavano forse cinque o sei
volti familiari. Il resto era una massa compatta, dai volti sconosciuti e come inferociti. Ai lati del viale c'erano dei camion e, dietro i camion, stavano i soldati. Era questa la cosa più terribile. La folla
rimase in piedi per tutta la notte senza avanzare. Si faceva appena in tempo a
fare conoscenza con qualcuno, che quello poi scompariva; qualcuno cercava di
infilarsi sotto i camion, ma i soldati lo ricacciavano indietro; qualcun altro
invece lo spingevano a bordo e mi pareva che da lì poi non uscisse più. La
cosa più spaventosa era essere schiacciati contro un camion. Restammo
in piedi per tutta la notte, senza bere e senza mangiare e senza la possibilità
di andare al bagno. Tutti i cortili erano chiusi a chiave e così pure gli
androni. Improvvisamente mi ritrovai a circa trecento metri da piazza
Trubnaya; comparvero dei ragazzi che avranno avuto sedici o diciassette anni. Ce
ne stavamo in piedi tutti stretti insieme, e li sentivo discutere su come poter
andare avanti, magari passando sui tetti? Furono proprio questi ragazzini, alla fine, a salvarmi:
trovarono un androne socchiuso e mi trascinarono con loro. Dall'androne
passammo in un cortile, poi da questo in un altro, poi ci arrampicammo sul
tetto, e a quel punto li persi di vista. Scesi dal tetto e mi trovai nella via
parallela, sullo Tsvetnoj Bulvar, completamente esausto ma vivo.
Valentina
Shishkina, nel 1953 era una scolara
Eravamo a casa, sentimmo alla radio la notizia della morte
di Stalin e tutti scoppiarono a piangere: mia mamma, mia sorella
maggiore. Anch'io piangevo. Era morto
l'uomo più importante, colui che amavamo più di nostra madre e di nostro padre,
un dio. Il giorno seguente andammo a scuola, bisognava disporsi in riga in
segno di lutto, e anche lì tutti piangevano forte. Mia sorella maggiore, Tamara, volle andare
ai funerali con un'amica, benché nostra madre fosse assolutamente contraria e
si parasse teatralmente davanti alla porta. Ma le ragazze uscirono lo stesso.
Dal Leningradskoe Shosse, che all'epoca era alla periferia di Mosca,
arrivarono a piedi fino in centro, fino a piazza Pushkin, camminando per sei
o sette chilometri, perché i tram non circolavano. In piazza Pushkin
cominciava già la calca, cominciarono a spingerle da dietro, mia sorella e la
sua amica si spaventarono. Si infilarono sotto una macchina e sbucarono in un
vicolo. I soldati le lasciarono passare, le ragazzine erano veramente
terrorizzate. Si incamminarono verso casa, sul Leningradskoe Shosse.
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