Quel che resta dell'impero sovietico

La copertina del libro

La copertina del libro

Interviste ai grandi protagonisti di allora, testimonianze e incontri messi nero su bianco. Nel suo libro “Tra le rovine dell'impero sovietico” il giornalista Almerico Di Meglio racconta i mesi del crollo dell'Urss
Rubrica "Mosaico"
L’immagine di un Paese non è altro che un mosaico composto da milioni di schegge. Un caleidoscopio di specchi variopinti che formano una vetrata. Riflettendo l’influsso di un’altra cultura, i raggi superano le frontiere reciproche. E, modificandosi, questo mosaico assorbe le tradizioni di diversi luoghi, seppur lontani. Ciò che ci circonda, il nostro MicroCosmo, non è altro che un mondo effimero che diventa reale. Lentamente. Attraverso mostre, eventi, personaggi. Che uniscono le persone. Formando una visione più globale del mondo. Letteratura, musica, tradizioni. Simboli di generazioni legate, che riflettono in sé l’unicità del popolo russo e l’anima del Belpaese. Legando a doppio filo Napoli e Mosca.

Un viaggio lungo due mesi nell'Urss che stava per sparire dalle carte geografiche. Tra il 7 e l'8 dicembre 1991 la storia metteva un punto esclamativo sull'Unione Sovietica. E Almerico Di Meglio, napoletano, nato a Ischia, storico corrispondente de Il Mattino, il principale quotidiano di Napoli, era a Mosca, appena sceso da un aereo da Tashkent. Era l'ultima tappa di un tour partito dalla Moldavia attraverso le repubbliche sovietiche, escluse quelle baltiche, da tempo lontane dall'Unione, raccontato in “Tra le rovine dell'impero sovietico” (Università Popolare di Torino Editore) libro presentato a Ischia, qualche giorno fa. Un reportage, un pezzo di mondo in disfacimento, a un incrocio strategico con la storia. Tra schede, cartine per mostrare ai lettori quei Paesi che si allontanavano l'un dall'altro. E dettagli su incontri, conversazioni, testimonianze, riflessioni sui leader protagonisti dell'ultimo drammatico frammento di storia sovietica, da Mikhail Gorbaciov, la perestrojka, fino a Boris Eltsin. Per rendere il lettore testimone, 24 anni dopo, di un momento storico per l'Europa, per il Mondo, tracciando anche il profilo di realtà, le repubbliche sovietiche, sigillate per sette decenni.

Come è nata l'idea del reportage?

Nella primavera del 1991 avevo seguito le elezioni democratiche per la presidenza della Russia, le prime della storia. Boris Eltsin sarebbe salito al potere. E intervistando Gorbaciov, che aveva vinto il referendum sul mantenimento dell’Unione, attenuando le aspirazioni indipendentistiche, il leader sovietico mi diceva che stava cominciando la fase più difficile. Poi il 19 agosto, il golpe a Mosca. E ai primi di settembre, a Leningrado per il referendum che avrebbe ridato alla città il nome di San Pietroburgo mi venne l'idea di testimoniare quel momento storico così importante, il crollo dell'incubo dell'Occidente, il feticcio di una parte dell'umanità. E convinsi il direttore de Il Mattino, Pasquale Nonno, che convinse a sua volta l'editore per sostenere le spese.

Per due mesi andai in giro per un Impero che si disfaceva a nemmeno un decennio dall’apice della sua espansione. E non crollava per una guerra perduta ma perché marcio. E tuttavia, prodigiosamente, il crollo dell’impero sovietico comportava solo un ridimensionamento, per quanto significativo, dell’impero russo, e con un prezzo di sangue tutto sommato relativo, considerandone le dimensioni e il numero di nazioni e abitanti, perché resistevano la sua intelaiatura, per quanto arrugginita, la sua burocrazia, per quanto ottusa e buona parte dell’establishment politico-istituzionale, che con sorprendente tempismo s’era impegnato in una ciclopica operazione di trasformismo. Un impero il cui percorso storico era stato sintetizzato su uno striscione inalberato dalla folla di studenti e operai scesi in piazza contro i golpisti. C’era scritto: “Settant’anni di marcia verso il nulla”. Ma una marcia che lo storico Robert Conquest calcolò fosse costata nella sola Urss 45 milioni di morti.

Qual era l'obiettivo del suo lavoro? 

La mia sfida era testimoniare il disfacimento sovietico a dispetto del caos in cui versava l’Unione, tra mezzi di trasporto e comunicazione a singhiozzo, scontri sanguinosi in alcune repubbliche, assenza di un adeguato supporto logistico e di mezzi.

Un viaggio tra quasi tutte le repubbliche sovietiche, tra appuntamenti, interviste, informatori. Seguire un filo deve essere stato difficile.

Nove fusi orari, non c'era un ordine razionale, mi aiutò Giuseppe D'Amato, allora universitario a Mosca, poi corrispondente per vari quotidiani dalla Russia. Lui visitò tutte le rappresentanze delle repubbliche, prese moltissimi appuntamenti. Andavano incontrati leader politici, religiosi, esponenti della cultura, della società. A Napoli studiai e predisposi la “scaletta” del lavoro giornalistico, predisponendo schede e cartine per consentire ai lettori di visualizzare le aree interessate. 

Nel libro si coglie una sorta di omaggio postumo a Mikhail Gorbaciov.

Sì, in onore della sua onestà intellettuale, dignità e coerenza, oltre che per il ruolo cruciale rivestito in quel momento storico. Con la glasnost, la perestrojka, il primo trattato sul disarmo, referendum sull'unione e le prime elezioni libere si illuse di democratizzare il Partito comunista, con esso istituzioni, potere, società. Ma fu travolto dagli eventi e dalla mancanza di lucidità nel pesare la vastità del cambiamento. 

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