Gli hipsters russi sono soltanto una piccola componente della prima generazione post-sovietica cresciuta con il capitalismo (Foto: Ria Novosti)
In un suo recente post su un blog del New Yorker, Teju Cole definisce “hipster” una persona “che ha un odio irrazionale per gli hipsters”. In Russia, come altrove, con tale termine si identifica un paradosso vero e proprio.
Il giornalista americano David Brooks nel 2000 affermava che, quanto meno in America, era diventato molto difficile distinguere chi apparteneva alla controcultura e il cosiddetto “establishment”. Mentre prima gli anticonformisti erano soliti farsi crescere i dreadlock e frequentare caffè artistici e l’establishment ingrigiva e frequentava la chiesa, all’inizio del XXI secolo pareva che tutti si considerassero come appartenenti alla controcultura. Era possibile vedere sia banchieri sia progettisti di software farsi tatuare e citare Jack Kerouac come chiunque altro. L’ideologia, se è mai esistita, non indossava più uniformi.
Nella sua forma più recente gli hipsters sono caratterizzati da un mix di influenze (Foto: Ufficio Stampa)
Il cambiamento al quale accennava Brooks si verificava in contemporanea con il riaffermarsi del cosiddetto fenomeno “hipster”. Anche se la parola “hip” si era andata affermando all’inizio del XX secolo, il suffisso è stato aggiunto soltanto in seguito, negli anni Quaranta, e in quel periodo con hipsters si indicavano per lo più i giovani bianchi della middle-class che si sentivano parte del panorama jazz.
Negli anni Cinquanta si assistette a un’evoluzione del fenomeno hipster, o quanto meno del suo significato, e si iniziò ad associarlo a una sorta di nomadismo stimolato dall’uso di sostanze stupefacenti e rappresentato da scrittori come Jack Kerouac e Allen Ginsburg.
Poi, all’improvviso, scomparve. L’hipster fu accantonato da qualche parte, in qualcosa di simile a un deposito criogenico, per ricomparire quindi negli anni Novanta, quando assunse una forma estetica simile, per certi versi, a un collage musicale.
Nella sua più recente incarnazione, l’hipster evidenzia un guazzabuglio metonimico di influenze. Si tratta di un individuo che compie enormi sforzi per abbinare in un unico stile – talvolta in un abbigliamento unico - pressoché tutti i movimenti culturali del XX secolo. L’hipster rappresenta il confluire di spazio e tempo al massimo livello possibile. Ruba il cardigan di Sylvia Plath, porta i capelli tagliati a scodella come i Beatles e sfoggia baffoni da poliziotto di telefilm degli anni Settanta sotto un paio di occhiali Wayfarer alla Dylan.
In alternativa, l’hipster si presenta indossando il maglione della nonna e la kefiah palestinese, si scatta una foto con l’iPhone da postare online, fuma Gitanes e ficca una biografia del Che in una borsa a mano kitsch unisex di Sesame Street. Ascolta i Grizzly Bear agli esordi e ha tutto l’aspetto di un Grizzly Beard degli esordi. L’hipster, in altre parole, sembra una via di mezzo tra chi non si è perso neanche un telefilm dell’ultimo mezzo secolo e chi non sa nemmeno che aspetto abbia un apparecchio televisivo. Era destinato a prendere piede e lo ha fatto.
Il termine "Stilyagi" è stato utilizzato in epoca sovietica per descrivere una sottocultura di giovani ossessionati da moda e musica soprattutto jazz (Foto: Ria Novosti)
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In Russia, in epoca sovietica, e soprattutto negli anni Cinquanta, per descrivere un tipo di sottocultura giovanile ossessionata dalla musica e in massima parte dal jazz, si utilizzava il termine “stilyagi” , spesso con una sfumatura dispregiativa. A distanza di mezzo secolo, ecco l’hipster russo. Ma è davvero così? L’hipster russo è soltanto una copia o un cugino della creatura che si trova in Occidente? O non ha nulla in comune con quella, se non il nome?
Il trailer del film di Valerij Todorovskij "Stilyagi", un musical del 2008 (Fonte: YouTube)
Alla fine degli anni Ottanta, alcuni economisti e sociologi si innamorarono del termine “glocalisation”, una brutta sintesi di “globalizzazione” e “localizzazione”. Ciò a cui si riferiva quel termine era il modo col quale le culture regionali addomesticavano e modificavano i trend globali.
A prescindere da quanto sia brutto questo termine, probabilmente è quello più corretto da utilizzare in questo caso. Gli hipsters russi guardano indubbiamente all’Occidente, anche se sarebbe un errore considerarli soltanto imitatori di una parte dell’“impero” culturale occidentale.
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Non ancora a disagio per la cafonaggine dei grandi marchi, l’hipster russo ha più probabilità di un hipster occidentale di fare tappa a uno Starbucks. Non che l’hipster occidentale respinga il consumismo in sé e per sé: anzi, l’unico consumo che l’hipster russo respinge in toto, in quanto appartenente alla Generazione Barba, è la lametta del rasoio.
Il fatto è che l’hipster è più sensibile nei confronti del rapporto tra marchio e cultura, specialmente la cultura di massa. Per l’hipster occidentale, Starbucks è da disdegnare perché è un pilastro ineludibile sia del capitalismo delle corporation sia del plebeismo, con i suoi caffè da centri commerciali di sinistra illuminati al neon. Gli hipsters russi sono soltanto una piccola componente della prima generazione post-sovietica cresciuta con il capitalismo, che non ha ereditato i regimi esoterici della differenziazione dei brand, così cara alla sua controparte occidentale.
Ma molto probabilmente in futuro arriverà anche questo. Yuri Saprykin, ex direttore editoriale di Afisha, una rivista russa di intrattenimento molto cool con il suo sito Web, dice di essersi imbattuto per la prima volta nella parola hipster nei media russi nel 2004. Dapprima essa stava a indicare un particolare stile di moda, che differiva poco da ciò che si potrebbe vedere in qualsiasi altra parte del mondo. Nel giro di un paio d’anni soltanto, tuttavia, è diventato anche un termine spregiativo.
Questo è stato il caso non soltanto della stampa e dei suoi addetti ai lavori, ma degli stessi hipster, alcuni dei quali avevano iniziato a farsi notare prendendo parte a dimostrazioni e avvenimenti pubblici a sostegno di personaggi dell’opposizione. Alcuni segmenti dei media russi hanno sostenuto che in questo caso si trattava non di un impegno politico vero e proprio, ma di azioni decadenti di persone impulsive con il chiodo fisso della moda, impegnati in raduni politici per nessun altro motivo se non il fatto che farne parte era cool.
Più seriamente, per alcuni gli hipster erano l’incarnazione di quel temuto soggetto che è il demshiza, un popolo che nel suo viaggio verso la democrazia liberale in qualche modo ha perso completamente il cervello.
Ma se “hipster” è diventato un termine che nella mente di alcuni giornalisti russi ha assunto una sfumatura ridicola, per gli hipsters stessi è ancora meno accettabile.
Chris Fleming è senior Lecturer in Humanities and Communication Arts all’University Western Sydney
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