Il ministro russo degli Esteri Sergej Lavrov.
: ReutersL’agenda prevista per la tre giorni di discussione al Forum, che avrà luogo dal 17 al 19 febbraio, si focalizza sulle recenti divergenze emerse all’interno dell’Alleanza Atlantica, in particolare sul futuro status della Nato e della cooperazione militare tra gli stati-nazione europei, e contemporaneamente sull’escalation della crisi in Ucraina, le turbolente relazioni con la Russia e il finale della guerra in Siria, oltre allo sviluppo della regione Asia-Pacifico.
Nel corso dell’importante evento, che si svolge annualmente nella capitale bavarese, si prevede di approfondire la disamina e la valutazione su tali questioni grazie al contributo di 500 politici ed esperti stranieri.
In una certa misura, le idee emerse alla conferenza potrebbero costituire delle linee guida per mappare le politiche riguardanti la sicurezza globale e regionale. Tuttavia, l’agenda del Forum potrebbe essere dirottata su un altro focus, ovvero l’America di Trump si ritirerà davvero dall’Europa?
Il timore che Trump approfitti delle divergenze europee
“Non è esagerato affermare che il futuro dell’Unione Europea dipenda dal conseguimento di un equilibrio stabile”, sostiene Wolfgang Ischinger, presidente della Conferenza di Monaco sulla Sicurezza.
“Il prossimo dovrebbe essere l’anno più cruciale per l’Europa dai tempi della caduta del Muro e dalla fine della Seconda guerra mondiale”: l'affermazione di Ischinger suona come un campanello d’allarme.
La ragione fondamentale risiede, a suo avviso, nell’atteggiamento ambiguo della nuova amministrazione Usa verso la Nato e la “disunione” dell’Ue. È comunque abbastanza vero che Trump si presenta come un autentico “euroscettico”, una sorta di ibrido tra Nigel Farage e Marine Le Pen.
Ciò che più preoccupa Ischinger è che Trump appaia ansioso di trattare direttamente coi paesi fuoriusciti dall’Unione, bypassando l’Ue. Si tratta di una sfida colossale, che potrebbe generare un “profondo conflitto nell’Alleanza Atlantica”.
Di fatto la vera sfida della disunione europea è trovare un sostituto degli Stati Uniti, il cui ruolo di unico e indiscusso leader sembra essere sul punto di scomparire.
Le testate nucleari attraggono davvero la Germania?
Le élite politiche temono l’eventuale passaggio degli Stati Uniti dal ruolo di driver alla guida del mezzo a quello di anonimo passeggero e iniziano a guardarsi intorno alla ricerca di un sostituto. Quali saranno le alternative per riempire questo vuoto nell’ambito della sicurezza nell’ipotesi di una parziale riduzione da parte dell’amministrazione Trump dell’impegno degli Usa nella Nato?
La logica tradizionale vorrebbe che la scelta cadesse sul secondo in ordine di classifica o sul secondo al comando e ciò porterebbe necessariamente a puntare sulla Germania quale maggiore forza economica e potenza militare alleata con la Nato.
Alla vigilia del conteggio dei voti lo scorso novembre, prima ancora che qualcuno fosse in grado di prevedere la vittoria di Hillary o di Trump alla Casa Bianca, su Spiegel online si ipotizzava, che nel caso di un risorto “isolazionismo” degli Usa per la Germania sarebbe stata una scelta saggia puntare sulla “deterrenza”, come a dire su forze nucleari europee o nazionali.
Se le garanzie di sicurezza offerte dal cosiddetto “ombrello nucleare americano” sono destinate a non sussistere a lungo, l’Europa ha tuttavia ancora bisogno di una protezione di tipo nucleare a scopo deterrente, sostiene Roderich Kiesewetter, portavoce di politica estera dei cristiano-democratici tedeschi.
La stessa linea di pensiero era stata riaffermata in un articolo pubblicato sull’influente quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung che concordava su un analogo scenario, delineando una prospettiva in cui la Germania sarebbe ridiventata una formidabile potenza militare, ma questa volta con una forza nucleare. In sostanza il Frankfurter Allgemeine esortava le autorità e i lettori a riconsiderare uno scenario fino ad ora “impensabile”.
La condivisione di tale ipotesi aveva spinto Frederick Studemann del Financial Times a intitolare il suo articolo “Azzardando l’impensabile: sul cammino della Germania verso il nucleare”.
Prendendo alla lettera gli scenari delineati, potrebbero apparire come tacite strategie elaborate da certi politici estremisti e dai media per spaventare le élite negli Usa e nel Regno Unito e riportare abilmente lo staff dei consiglieri strategici di Trump nel solco della Nato, e in tal modo, secondo la mirabile sintesi di Lord Ismay, “tenere alla larga i russi e contenere la Germania”.
Tuttavia, il rischio di una militarizzazione 2.0 della Germania non può essere escluso. Il discorso sul cammino della Germania verso il nucleare potrebbe sottintendere una manovra sotterranea con le élite per armonizzare la grandezza macroeconomica con il potenziale militare.
Inoltre, il disagio dell’attuale classe politica ancora disorientata e afflitta dal senso di colpa, potrebbe essere superato se l’incremento e la diffusione di sentimenti anti-islamici e anti-migranti radicalizzassero le classi dirigenti, preparando un terreno fertile per il potere dell’ultradestra.
Ciò costituirebbe una grave minaccia per la pace, la sicurezza e la stabilità in Europa. E quel che è peggio assumerebbe i contorni di una minaccia esistenziale. Vale la pena ricordare il precedente negli anni Trenta della Repubblica di Weimar che collassò tra l’entusiasmo collettivo per l’entrata in guerra.
Ma questo scenario apocalittico verrà considerato ai margini della Conferenza di Monaco? Risulta assai improbabile.
La profezia di Putin
Una decina di anni fa, il 10 febbraio 2007, il Presidente Vladimir Putin, nel suo discorso epocale alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, mise in guardia i partecipanti sui rischi della strategia Usa di riformare con la forza le relazioni internazionali per dar forma a un “mondo unipolare”, trascurando sfacciatamente gli interessi delle nazioni non alleate con l’Occidente.
Quattro trilioni di dollari furono investiti dalla successiva amministrazione nella guerra contro il terrorismo su scala mondiale; guerra culminata con l’emergenza prodotta dalla potente alleanza costituitasi tra i fondamentalisti islamici e sfociata nella “vivisezione” dell’Iraq e della Siria, nell’incessante perpetrarsi delle violenze in Afghanistan e nella trasformazione della Libia in uno Stato canaglia e in una terra di nessuno.
La strategia Usa del cambio di regime (la cosiddetta dottrina Kagan-Nuland) ha prodotto un ben altro effetto, vale a dire l’erosione del relativo consenso tra l’élite politica e quella imprenditoriale.
Avendo come background una tacita guerra con l’establishment americano e data la probabilità che l’amministrazione Trump non intenda più essere un garante della sicurezza, l’Unione Europea si trova di fronte a una difficile scelta: o seppellire l’ascia della Guerra Fredda con la Russia o proseguire le accese ostilità con delle conseguenze imprevedibili.
Questi due scenari sono al centro della questione della sicurezza europea, ma non sembrano essere contemplati nell’agenda corrente dei governi nazionali, né in quella delle autorità centrali europee. La Conferenza sulla Sicurezza di Monaco potrà segnare un cambio di rotta?
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