Perché il South Stream non è più attuale

La decisione di bloccare il progetto è risultata una sorpresa, nonostante le complicazioni sorte e le complesse relazioni con l’Europa. Tuttavia, esistono delle ragioni assolutamente oggettive che hanno condotto a tale scelta

Disegno: Natalia Mikhailenko

La decisione da parte russa di bloccare il progetto del “South Stream” è risultata per la Russia una sorpresa, malgrado tutte le complicazioni sorte dal progetto e la complessità delle relazioni tra Russia ed Europa. Tuttavia, esistono delle ragioni assolutamente oggettive che hanno condotto a questa decisione.

Eventualità di rinunce al progetto o almeno di sue sostanziali riduzioni si erano già profilate lo scorso anno e anche due anni fa allorché la logica economica aveva escluso per entrambe le parti ogni sua evidente opportunità politica. A quel punto le stime economiche avevano confermato i prevedibili esborsi massicci legati al megaprogetto infrastrutturale rispetto alla situazione prospettata al suo inizio. Il blocco del progetto è un’ottima occasione per ricostruire i tempi e le motivazioni di quando era stato elaborato.

Verso la metà del 2007 Gazprom ed Eni avevano siglato il primo memorandum sulla realizzazione di “South Stream”. All’inizio del 2008 erano stati conclusi degli accordi intergovernativi con i paesi maggiormente coinvolti nel progetto e quindi più di altri preoccupati di una sua eventuale cancellazione, vale a dire Bulgaria, Ungheria e Serbia. Il mondo non era stato ancora colpito dalla crisi e i programmi “verdi”  e di tutela delle risorse energetiche dell’Unione Europea dovevano ancora essere approvati, mentre la domanda di gas si pensava dovesse essere in crescita. Se nel 2005 solo l’import di gas si aggirava sui 300 miliardi di metri cubi, per il 2015 l’Agenzia internazionale dell’Energia (Aie) aveva previsto un aumento che avrebbe oltrepassato i 430 miliardi di metri cubi l’anno. Il “Terzo pacchetto energia” che “prevedeva il divieto da parte dei fornitori di gas di controllare i gasdotti” non era ancora entrato in vigore, benché fosse stato approvato dalla Commisione Europea. Inoltre, a cavallo tra il 2007 e il 2008, il prezzo spot del gas negli hub europei aveva superato la tariffa di Gazprom. In una tale congiuntura un sensibile aumento della domanda di gas russo appariva inevitabile.

Tuttavia, negli anni seguenti, a poco a poco, la legittimazione del “South Stream” diventava sempre più traballante. La crisi economica e i programmi ecologici avrebbero prodotto una revisione delle importazioni previste di  gas in Europa nel 2020 dai 450-500 ai 300-350 miliardi di metri cubi quando il “South Stream” avrebbe già dovuto funzionare a pieno regime con una capacità Ma grazie allo sviluppo di forniture alternative e anche al boom dello shale gas negli Stati Uniti sui mercati europei la concorrenza si è inasprita e il gas russo nel periodo della crisi globale è diventato notevolmente più caro del gas in vendita sulle piazze commerciali d’Europa. In seguito è stato messo in cantiere il “Nord Stream” che poggia sul fondo del Mar Baltico e garantisce la presenza di infrastrutture di transito benché non consenta ancora di bypassare l’Ucraina. Inoltre, con l’arrivo al potere in Ucraina di Viktor Yanukovich, anche Gazprom ha potuto contare maggiormente sulle vie di transito del gas ucraine. I fattori che potevano legittimare la costruzione di “South Stream” con la sua gigantesca capacità prevista di 63 miliardi di metri cubi di gas all’anno non sembravano ancora così tanti.

Gli avvenimenti ucraini del 2014 avrebbero potuto imprimere una svolta radicale, coinvolgendo nel progetto nuove forze. L’unica motivazione cruciale di “South Stream” restava di fatto quella di bypassare l’Ucraina, almeno per ogni evenienza. L’incapacità da parte di Russia, Ucraina ed Unione Europea di trovare un accordo sulle forniture di gas in Ucraina per quasi tutto l’arco del 2014 non ha fatto che ribadire l’attualità di un percorso alternativo per garantire l’indipendenza delle esportazioni in Europa dall’Ucraina. Tuttavia, la posizione dell’Unione Europea è apparsa più conservatrice di quanto ci si potesse attendere. È difficile dire da che cosa sia dettata, se da un’intransigenza sulla legalità, dalle ripercussioni negative del conflitto ucraino o semplicemente dal rifiuto di andare incontro a Gazprom e alla Russia. Se persino nella congiuntura attuale la burocrazia europea non è stata disposta a trovare un compromesso, è assai improbabile che ciò possa verficarsi in futuro.

L’alternativa adottata, vale  a dire la messa in posa di un gasdotto sul fondo del Mar Nero in Turchia, risulta oggi la variante più coerente. Se la Russia aveva predisposto una propria infrastruttura autonoma per l’esportazione di gas nell’Unione Europea proprio nel Sud del paese e se resta la necessità di bypassare l’Ucraina, allora l’unica opzione rimasta era quella di costruire un gasdotto che attraversasse la Turchia fino ai confini coi paesi dell’Unione Europea. Dove dovrebbe proseguire oltre resta una questione aperta, ma gli europei fino a qualche anno fa avevano una moltitudine di progetti alternativi relativi al “Corridoio Sud”, ora congelati,  come l’Itgi,  il Seep e il Nabucco West che avrebbero dovuto avviare, tra l’altro, dalla Turchia, e la realizzazione di una via turca del transito del gas consentirebbe anche di attuare simultaneamente tutti questi progetti.    

Tuttavia, tale decisione non indica un cambio di rotta nella politica russa nel settore del gas verso qualunque direzione purché lontano dall’Europa. Persino il suo vettore “orientale” sembra svilupparsi da solo sulla base di proprie infrastrutture di trasporto del gas autonome. La parte russa e Gazprom si limitano semplicemente a ottimizzare la forma della loro strategia in Europa, mantenendo gli stessi contenuti di un tempo, se si esclude la gestione dei gasdotti nell’Ue, obiettivo al quale aspirava la Commissione Europea.

L’autore, Aleksandr Kurdin, è direttore del Dipartimento di Studi strategici del Centro di analisi in campo energetico del governo della Federazione Russa

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