Vignetta di Sergei Elkin
Il 18 settembre 2013 nel Mare di Barents gli attivisti di Greenpeace si sono accostati alla prima piattaforma petrolifera russa nell’Artico, la Prirazlomnaya, e due di loro hanno tentato di arrampicarsi.
La Guardia costiera russa è stata allertata e quando è intervenuta ha allontanato con forza i gommoni che circondavano la nave di Greenpeace, l’Arctic Sunrise, sparando colpi di avvertimento in direzione il natante e colpendo gli attivisti con cannoni ad acqua. I due attivisti che stavano cercando di dare la scalate alla piattaforma sono stati subito arrestati.
Il giorno seguente la Guardia costiera russa è ritornata in elicottero, è salita sulla nave di Greenpeace e ha arrestato gli altri 28 attivisti. Poi ha rimorchiato la nave fino a Murmansk. Il 24 settembre 2013 numerosi comunicati stampa hanno lasciato poco spazio ai dubbi: gli attivisti sarebbero stati imputati di pirateria. Infine, il 3 ottobre 2013, tutto l’equipaggio è stato accusato della stessa imputazione.
Buona parte del dibattito internazionale sull’incidente, finora, ha interessato gli aspetti legali, in particolare le questioni relative alla giurisdizione. In tale contesto ci si è focalizzati soprattutto sull’interpretazione della Convenzione delle Nazioni Unite sulla Legge del Mare, sull’applicabilità dell’imputazione di pirateria e sulla legalità (o meno) dell’intervento della Guardia costiera russa, che è salita a bordo e ha preso i comandi della nave di Greenpeace.
Molti, ovviamente, hanno contestato la validità dell’accusa di pirateria. (Per aggiungere altra confusione al caos, la Russia si rifiuta di perseguire penalmente alcuni veri pirati somali che nel 2010 si sono impadroniti di una piattaforma petrolifera russa, perché, si disse all’epoca, le leggi internazionali in materia erano troppo vaghe in proposito).
A prescindere dal loro status legale o dagli aspetti etici correlati, queste azioni hanno alcuni precedenti. Nel febbraio 2013 la Corte d’Appello degli Stati Uniti ha condannato per pirateria alcuni attivisti che si battevano contro la caccia alla balena, anche se – è doveroso dirlo – le tattiche adottate da loro erano completamente diverse da quelle utilizzate dall’equipaggio dell’Arctic Sunrise. È anche risaputo che ci sono stati casi – perfino drammatici – di interventi di “difesa” con la mano ancora più pesante contro l’attivismo ambientalista. Il più noto di questi fu nel 1985 l’affondamento da parte dell’agenzia d’intelligence francese Dgse (Direction générale de la sécurité extérieure) della Rainbow Warrior, la nave di Greenpeace.
Ma se in questo specifico episodio ci possono essere divergenze circa gli aspetti legali o etici – o la loro interpretazione – , ce ne dovrebbero essere sicuramente meno in termini di percezione pubblica. La vista di attivisti disarmati messi in ginocchio, tenuti sotto tiro, rinchiusi senza imputazione e poi accusati di un reato che prevede una possibile condanna a 15 anni di reclusione può avere come conseguenza quella di attirare l’attenzione su ciò che molti credono essere una questione di fondamentale preoccupazione pubblica. E da molti indizi risulta che sta accadendo proprio questo.
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Fuori dalla Russia c’è stato un insolito notevole sostegno agli attivisti e in 45 Paesi si sono svolte dimostrazioni e proteste. Molti esperti di legislazione marittima e internazionale hanno espresso critiche sia su questioni procedurali sia sul possibile verdetto, tanto che alcuni di loro hanno fatto circolare una dichiarazione pubblica.
Anche Amnesty International ha segnalato la sua insoddisfazione per le accuse e la detenzione degli attivisti e il governo olandese ha reso nota la sua intenzione di dare il via a un procedimento d’arbitrato contro la Russia (anche se non rappresenta le opinioni della maggioranza), con proteste inscenate fuori dagli uffici di Mosca di Gazprom e dichiarazioni di personaggi pubblici.
Perfino il Presidente russo Vladimir Putin ha detto dei dimostranti che “era del tutto ovvio che non si trattava di pirati”. È difficile fare congetture sulle conseguenze a lungo termine di questi avvenimenti, ma vale la pena ricordare che nella sua marcia da Ahmedabad a Dandi, nel 1930, il desiderio di Gandhi era quello di essere arrestato. Lo stesso si dice dei partecipanti ai sit-in anti-segregazione di Nashville del 1960.
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Può anche darsi che questo non fosse l’intento dei dimostranti di Greenpeace, ma non mancano certo i precedenti dai quali dedurre che l’arresto di inermi civili disobbedienti che hanno elettrizzato l’opinione pubblica di rado va nell’interesse delle potenze che procedono ad arrestarli. È ancora poco chiaro capire se sarà questo il caso.
Chris Fleming è senior lecturer in Humanities and Communication Arts all’University Western Sydney (UWS)
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