Vignetta di Alexei Iorsh
Durante gran parte del conflitto siriano, la Russia si è opposta a una risposta internazionale coesa, impedendo all’Onu di condannare le atrocità compiute dal regime e sviando la pressione internazionale volta a favorire delle riforme. La Russia ha forti interessi che la spingono a voler mantenere la Siria all’interno della propria orbita. Oltre ad offrirle un porto nel Mediterraneo e la possibilità di influenzare il Medio Oriente, Damasco, infatti, fa parte della strategia energetica globale russa.
I recenti sviluppi hanno però dimostrato che, proprio grazie alla sua vicinanza al regime siriano, la Russia può agire da catalizzatore, favorendo una soluzione diplomatica. Resta da vedere se la leadership siriana distruggerà davvero le armi chimiche in suo possesso. Ma se il piano sarà implementato come previsto, vi sono motivi per sperare in una soluzione politica a più ampio raggio, anche se, con ogni probabilità, i combattimenti di tipo convenzionale si protrarranno nel tempo.
Gli americani sostengono che la credibile minaccia del ricorso alla forza militare sia stata fondamentale per giungere all’attuale situazione. Analogamente, il generale Lord Dannatt ha dichiarato dalle pagine del Telegraph che la forza militare potrebbe essere necessaria per creare un’apertura a una soluzione politica.
Il governo russo deve capire che se non sfrutterà con maggiore efficacia la propria influenza sul regime siriano, le minacce di attacchi militari non cesseranno. Anche se allo stato attuale l’impiego della forza militare appare problematico: non solo i suoi scopi rimangono infatti poco chiari, ma molti dei potenziali obiettivi si trovano all’interno di centri abitati. Gli attacchi potrebbero causare l’uccisione di civili e un forte incremento nel numero dei rifugiati, oltre a rischiare di rafforzare il sostegno verso il regime e scatenare degli attacchi regionali da parte dei militanti. Inoltre, se fossero troppo drastici, gli attacchi potrebbero causare un vuoto di potere, che, a sua volta, promuoverebbe l’insorgere di gruppi islamisti più radicali.
Ciò che manca all’attuale dibattito è la visione di una Siria post-conflitto, e indicazioni su come arrivarvi. I governi occidentali parlano di “Assad che deve andarsene”, e di spezzare l’alleanza siro-iraniana. A parte la difficoltà di estromettere un leader che continua a godere del sostegno delle proprie forze armate e di una significativa percentuale della popolazione (anche se giustificato, in molti casi, dalla paura delle alternative), un improvviso cambiamento di regime non è nell’interesse della popolazione siriana né dell’Occidente, soprattutto se dovesse avere come esito il caos, con possibili gravi conseguenze a livello regionale.
Cameron e altri denunciano, a ragione, le violazioni dei diritti umani perpetrate dal regime, benché sorvolino sugli abusi compiuti dall’opposizione. La giusta risposta politica è rappresentata, però, da una strategia comune, che integri prospettive militari, diplomatiche e di sviluppo, separata da una risposta umanitaria neutrale e indipendente, tale da lasciare agli attori locali lo spazio necessario a trovare una soluzione sostenibile, anziché imporre una “soluzione” instabile che soddisfi gli interessi di altri Stati. La presenza degli osservatori militari esterni sarà necessaria per assicurare la tenuta di qualsiasi tregua (e la distruzione delle armi chimiche, su tutti i fronti). Aiuti economici e investimenti saranno necessari per aiutare a sostenere qualsiasi soluzione.
Altrettanto cruciali sono le capacità di mediazione, con cui mitigare, gestire e trasformare il conflitto e gettare le basi di un dialogo tra le parti, sia adesso che nella fase successiva alla guerra civile, per evitare ricadute.
Come che vadano le cose, la Siria post-conflitto dovrà riuscire a soddisfare l’élite alawita. Se questa fosse eliminata, infatti, la Siria si troverebbe a soffrire - più acutamente - di molti degli stessi problemi vissuti dall’Iran. Se le verrà negata la possibilità di intravedere un futuro politico, questa élite potrebbe diventare un elemento di disturbo e unirsi a un’alleanza sciita, contraria a qualsiasi assetto futuro.
Perché la Russia è contro la guerra in Siria
Tuttavia, tanto l’élite al governo che la Russia devono riconoscere che l’attuale regime è inaccettabile. La forma di un futuro assetto di transizione andrà discussa nel corso di colloqui multilaterali cui dovranno partecipare tutti le parti interessate (anche se sarà difficile identificare dei rappresentanti per ciascuna di esse), comprese tutte le minoranza religiose e i gruppi comunitari non armati della Siria. Gli attori regionali, dall’Iran a Israele, all’Arabia Saudita, al Qatar e alla Turchia, dovranno essere persuasi ad appoggiare una soluzione, per evitare che si trasformino in elementi di disturbo.
Russia e Usa dovranno lavorare insieme per influenzare i rispettivi alleati su fronti opposti del conflitto. E la Russia dovrà essere rassicurata sul fatto che manterrà la propria influenza sulla Siria anche dopo la fine del conflitto.
Jeroen Gunning è direttore del Durham Global Security Institute e docente di Politica mediorientale e Studio dei conflitti presso la Durham University
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