Dove sta andando l'Egitto?

Vignetta di Niyaz Karim

Vignetta di Niyaz Karim

Due esperti russi riflettono sulle conseguenze potenzialmente disastrose dell’attuale crisi politica del Cairo. Il parallelo con l'Algeria del 1992

Sono trascorse poche settimane dal giorno in cui il ministro della Difesa egiziano Abdel Fattah el-Sisi è apparso alla tv di Stato annunciando che il presidente Moahmed Morsi era stato isolato, ma nel Paese la situazione non sembra essere ancora tornata alla calma.

A dispetto di un caldo estenuante e del digiuno imposto dal mese santo del Ramadan, al Cairo migliaia di sostenitori di Morsi continuano il loro sit-in nella piazza di Rabaa Adaweya, mentre il 26 luglio 2013 milioni di sostenitori di el-Sisi hanno manifestato affinché al comandante supremo venisse concesso un mandato popolare per combattere la violenza e il terrorismo. La dimostrazione è sfociata in scontri tra i sostenitori di Morsi e le forze di sicurezza che secondo il Ministero della Sanità avrebbero causato la morte di ottanta persone e il ferimento di centinaia di altre.   

Quello stesso giorno il Consiglio per la politica estera e di difesa della Russia ha organizzato un incontro tra Aleksandr Aksenenok, diplomatico ed ex ambasciatore russo in Algeria, e Muhamed Salahetdinov, direttore dell’associazione culturale ed educativa islamica “Sobranie”. L’evento, intitolato: “L’Egitto dopo il colpo di Stato. Una nuova svolta per la primavera araba?”, era incentrato sui possibili futuri sviluppi in Egitto e sui rapporti tra esercito, islamisti e Islam politico.

Secondo Aksenenok l’attuale situazione egiziana è simile a quella attraversata dall’Algeria nel gennaio del 1992, quando in seguito alla vittoria del Fronte islamico di salvezza (Fis) il partito del Fronte di liberazione nazionale (Fln) annullò le elezioni parlamentari alla prima tornata elettorale. L’esercito assunse il controllo del governo, e il presidente Chadli Bendjedid fu obbligato ad abbandonare la propria carica. La soppressione del Fis e l’arresto di migliaia dei suoi membri favorirono in poco tempo l’insorgere di un movimento di guerriglia islamista e l’Algeria precipitò in una spirale di violenza che si è protratta per quasi un decennio e ha causato l’uccisione di oltre centomila persone.

“In entrambi i casi si è trattato di un golpe militare. Ma le caratteristiche nazionali, la storia, le tradizioni e la tolleranza dell’Egitto lasciano supporre che in questo Paese non si verificherà una guerra su larga scala - benché allo stato attuale delle cose sia difficile parlare di tolleranza”, ha dichiarato Aksenenok, che per decenni ha lavorato nella regione.   

Il diplomatico ha inoltre fatto notare che l’esercito egiziano ha imparato una lezione sia dal caso dell’Algeria che dall’esperienza maturata nell’ultimo anno e mezzo, ovvero da quando, a partire dalla caduta del regime di Mubarak, avvenuta nel febbraio del 2011, ha assunto il controllo del Paese. Aksenenok ha aggiunto che è proprio questo il motivo per cui il 3 luglio 2013 l’esercito ha trasferito i poteri all’amministrazione civile, rappresentata dal capo della Corte costituzionale suprema Adly Mansour.

“Adesso si teme che i gruppi radicali possano staccarsi dalla Fratellanza musulmana e unirsi a dei militanti stranieri per combattere contro l’esercito”, ha aggiunto il diplomatico, sottolineando come l’Egitto potrebbe attrarre, o aver già attratto, alcuni dei militanti già in lotta contro il regime di Assad in Siria.

“Quanto accaduto in Algeria dovrebbe servire di lezione sia all’esercito che al fronte opposto. L’esercito, -ha aggiunto Aksenenok, - dovrebbe liberare alcuni degli uomini attualmente tenuti in custodia, sollecitare un dialogo nazionale e riaprire tutti canali televisivi, mentre la FM deve fare di tutto per astenersi dagli attacchi terroristici”.

Secondo Muhamed Salahetdinov, capo dell’associazione del majlis (“consiglio”), è stata la paura di questa frattura all’interno dell’esercito a spingere il generale el-Sisi ad esortare i propri sostenitori a chiedere un mandato popolare che permetta di fare pressione sui sostenitori di Morsi.

In Egitto, a differenza di quanto accaduto in Siria, l’esercito non ha mai preso parte a scontri su larga scala contro i civili, e negli ultimi anni è rimasto assolutamente coeso, assumendo più volte il ruolo di difensore del popolo e del Paese anziché di un dato regime politico. 

Salahetdinov ritiene che la caduta di Morsi non rappresenti la fine dell’Islam politico, ma esclude un ritorno della FM nella sua forma attuale. Nel 2012, ha fatto notare Salahetdinov, la Fratellanza non si è dimostrata in grado di guidare il Paese e non ha mai avuto un chiaro programma politico o economico. “Dopo aver trascorso un anno al potere, la FM ha acquisito dell’esperienza. L’Islam politico sta maturando e sta emergendo, non è scomparso”, ha concluso.

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