La cacciata di Morsi non risolverà i problemi dell’Egitto

Vignetta di Niyaz Karim

Vignetta di Niyaz Karim

E la Russia deve dare il suo contributo per creare stabilità nel Paese delle piramidi

Se per l’Egitto la destituzione di Mohamed Morsi diventi una benedizione o una maledizione è una questione troppo sfaccettata perché la risposta sia univoca e per di più affermativa. È vero, c’è stata una nuova rivoluzione egiziana, anche se fiancheggiata dall’esercito.

Come ogni rivoluzione tuttavia, inclusa la deposizione di Hosni Mubarak, ha difeso gli interessi di una sola parte della società. In quale misura, però, quanto accaduto può essere accolto dall’altra parte, che ancora ieri aveva votato per il “primo Presidente democraticamente eletto”, approvando con un referendum la Costituzione da lui proposta?

Nonostante l’euforia del momento, l’Egitto è entrato in un periodo di lunghi e difficili sconvolgimenti, in cui uno degli aspetti da tenere in conto sarà il successo (sullo sfondo di un’opposizione frastagliata) del movimento dei Fratelli musulmani nel corso del prossimo processo elettorale. La dichiarazione di Abdul Fattah al-Sisi sulla destituzione di Morsi e sulla road-map dell’esercito non ha portato le strutture di stampo religioso oltre i confini dell’arena politica.

Le cause che hanno costretto una parte della società egiziana a ricorrere nuovamente alla violenza rivoluzionaria sembrano motivate: l’opposizione antipresidenziale parla di “islamizzazione” dello Stato, sottolineando l’incapacità del partito Libertà e Giustizia di realizzare le speranze economiche della popolazione.

È chiaro che un elemento fondamentale della linea politica dei Fratelli musulmani fosse l’instaurazione di un controllo totale sulle istituzioni statali e l’eliminazione degli avversari politici; ma l’islam in fondo non è già stato uno strumento di azione politica dei nemici dell’ormai ex Presidente, se ancora nel recentissimo passato il partito Neo-wafd, assertore del nuovo “liberalismo”, aveva iniziato a introdurre nella costituzione dei tempi di Mubarak (in coalizione con il movimento allora non legalmente riconosciuto dei “Fratelli musulmani”) una disposizione sulla sharia come “principio fondante” della legislazione?

Non ha senso pensare che i gruppi d’opposizione non abbiano alcuna responsabilità nell’instabilità politica interna e nella mancanza di investimenti. Anche se raggiungeranno le vette del potere (ma esiste un leader riconosciuto da tutti i gruppi dell’opposizione?) dovranno fronteggiare gli stessi problemi di prima: la sicurezza e l’economia.

Risolverli sarà difficile, anche solo per il fatto che i nuovi arrivati dovranno concordare una larga intesa di interventi che non includano soltanto l’istanza di “destituire gli islamisti”, ma anche un programma di riforme economiche che con ogni probabilità risulteranno inapplicabili per i loro attuali sostenitori. Inoltre l’avvento al potere dei gruppi di opposizione oggi è possibile esclusivamente grazie all’appoggio dell’esercito e perciò nella coscienza di molti egiziani l’idea di democrazia sarà a lungo discreditata.

In questo momento l’Egitto sta subendo una forte pressione dall’esterno, che va in direzione opposta: se l’Occidente richiede il ritorno del Paese sulla strada dello “sviluppo democratico”, gli Stati confinanti – quelli del Golfo – provano quasi un senso di sollievo per la fine del governo Morsi.

La posizione dell’Occidente è chiara, ma il telegramma di vivissime congratulazioni del re saudita, indirizzato ad Adli Mansur e ad Abdul Fattah al-Sisi, in cui si legge che l’Egitto si è finalmente “tolto dalle tenebre sotterranee”, la dice lunga sul reale rapporto del governo saudita con i Fratelli musulmani e le sue “sezioni nazionali” in altri Paesi del mondo arabo. Anche questa posizione del resto è comprensibile: è improbabile che l’Arabia Saudita, il “Paese protetto dal signore dei due luoghi santi”, che propone al mondo l’idea di uno “Stato salafita”, possa accettare l’invito lanciato da una forza politica che, per quanto inneggiante alla religione, è arrivata al potere con l’aiuto del processo democratico preso in prestito dall’Occidente.

Oggi questa appello sembra sia stato allontanato con successo, “per mano degli uomini delle valorose forze armate” come recita il telegramma. Di nascosto i Paesi del Golfo vorrebbero che gli islamisti, dopo aver ripetuto l’esperienza con il Fronte islamico di salvezza algerino, sparissero per sempre. Cadrà in quel caso sull’Egitto la “pioggia d’oro” saudita, degli Emirati, del Kuwait o del Qatar? Con ogni probabilità potrà arrivare soccorso (e forse anche sostanziale) dai Paesi del Golfo che hanno sempre visto nell’Egitto un alleato strategico. Sarà però sufficiente per superare le conseguenze della situazione critica di questi giorni, visto che l’Egitto, a differenza dell’Algeria, non è provvista di significative fonti strategiche di materie prime?

Riuscirà il Paese, basandosi su questo aiuto, a rinunciare al Fondo Monetario Internazionale e alle sue severe ricette di superamento della crisi? Non sembra che una risposta affermativa a tali questioni si delinei all’orizzonte. Per di più, se si considera la natura pluridirezionale della pressione esterna all’indomani della “seconda rivoluzione egiziana”, sarebbe il caso di ammettere che il periodo di stravolgimenti che attende l’Egitto sarà più duro di quanto si possa ipotizzare oggi.

Un ultimo punto, infine, non direttamente legato alla domanda iniziale: oggi gli esperti russi parlano se non di una “fine”, quantomeno di un “avvicinamento alla fine del dominio islamico” nel mondo arabo. L’opinione contiene una parte di verità, niente da dire. Il numero di Paesi i cui governanti si rifanno alla religione è diminuito e gli eventi in Egitto sono stati in effetti un segnale per le altre “sezioni nazionali” dei “Fratelli musulmani”.

Il problema tuttavia è più complicato. Nel giudicare la “seconda rivoluzione egiziana” la comunità di esperti russi non parte affatto dalle considerazioni attinenti al mondo arabo, ma dai timori, nascosti o manifesti, legati alla possibilità di un’influenza esterna (e ovviamente negativa) che un “islam non tradizionale” potrebbe esercitare sulla comunità musulmana presente nella Federazione.

Forse, però, vale la pena porre diversamente la questione: il periodo di lunghi e complessi rivolgimenti nel quale è entrato l’Egitto richiederà anche da parte della Russia (se vuole di fatto mantenere il suo statuto di membro del G8) una partecipazione attiva nelle questioni di questo Paese. C’è da chiedersi se riuscirà a farlo e se manterrà la sua influenza (o la ristabilirà, a seconda del punto di vista da cui si pone la domanda) su un’area che al momento la Russia sente ancora rientrare, anche se in modo non continuativo, nella sfera dei suoi interessi.

Grigorij Kosach è docente presso l’Università Statale russa di Scienze umane

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