I jidahisti ceceni a Damasco

Vignetta di Alexei Yorsh

Vignetta di Alexei Yorsh

Le possibili infiltrazioni dal Caucaso nel conflitto siriano potrebbero ripercuotersi sulla Russia e sulla sua reputazione a livello internazionale

L’esito della guerra civile siriana non mancherà certamente di ripercuotersi sulla reputazione della Russia nel mondo e sulla sua influenza in Medioriente – in ragione, tra l’altro, della grande credibilità che il Paese ha speso nel sostenere Bashar Assad. Tuttavia, le voci secondo le quali dei ceceni si sarebbero uniti all’insurrezione lasciano intravedere alcuni potenziali rischi che la Russia potrebbe trovarsi a dover fronteggiare all’interno del proprio territorio.

Secondo alcune indiscrezioni circolate nel 2012, tra le diverse migliaia di combattenti stranieri in lotta contro il regime siriano vi sarebbero stati dei ceceni. La scarsità di prove concrete sembrava indicare che la loro presenza fosse numericamente assai limitata. Inoltre, nulla provava che non si trattasse di abitanti del luogo: in Siria vivono infatti circa ventimila individui di etnia cecena. E, trattandosi in gran parte di sunniti, molti di loro non avrebbero alcun motivo per vedere di buon occhio il regime alawita di Assad.

In fondo, sia i russi che gli occidentali considerano i ceceni una sorta di “spauracchio”, il cui zampino viene scorto ovunque: dalla criminalità organizzata al terrorismo. Ignorare o non dare credito a quelle voci è stato facile. Si trattava quasi certamente di esagerazioni allarmistiche.

Da allora, tuttavia, tre elementi hanno iniziato a evidenziarsi con chiarezza, e ciascuno di essi presenta delle implicazioni preoccupanti per la Russia, per i sostenitori occidentali dei ribelli e per molti dei loro sostenitori all’interno della regione.

Il primo è che a quanto pare il movimento dei ribelli conta tra le proprie fila un crescente numero di ceceni, molti dei quali provengono dal Caucaso settentrionale. Stando ad alcuni membri del movimento, il Caucaso settentrionale sarebbe, dopo la Libia, il secondo bacino di provenienza dei combattenti stranieri.

Il secondo è che questi ceceni sono sproporzionatamente attratti dalle fazioni più radicali e ultra-islamiste dei ribelli. Il Fonte Al-Nusra, un gruppo eversivo che il governo Usa considera un’ala terroristica di Al-Qaeda, ne conta diversi tra i propri ranghi. Lo stesso Abu Mohammad al-Golani, leader del Fronte, potrebbe essere originario della comunità cecena siriana che fu cacciata dalle Alture del Golan da Israele. I cosiddetti “Fratelli immigrati” rappresentano una forza composta esclusivamente da combattenti jihadisti espatriati, ed è guidata da un ceceno noto con il nome di Omar Abu al-Chechen.

Terzo, e più preoccupante, è il fatto che per molti di questi jihadisti la Siria non rappresenta che uno dei tanti fronti di una guerra globale. Anziché limitarsi a combattere per abbattere il regime di Assad, essi considerano la propria lotta uno strumento per la creazione di uno Stato islamico che in futuro potrà fungere da base per nuove operazioni.

In ragione di ciò, malgrado l’entusiasmo e l’esperienza dimostrati da molti di questi volontari, il brigadier generale Selim Idris, capo di stato maggiore dell’Esercito siriano libero - un’unità ribelle - ha iniziato a tentare di dissuaderli dal venire, chiedendo loro di restare a casa e “limitarsi a inviarci armi, o fondi, o di pregare per noi”. Questo perché i combattenti ceceni tendono a essere jihadisti e la loro presenza complica il rapporto tra i ribelli e i loro sostenitori occidentali.

La presenza dei guerriglieri ceceni testimonia la spaccatura sempre più profonda che si è venuta a creare all’interno dell’opposizione tra elementi moderati e ultra-islamisti, oltre che tra estremisti sunniti e sciiti. E suscita, inoltre, una domanda: dove andranno questi combattenti una volta che la guerra in Siria si sarà conclusa?

Nulla di nuovo. Dopo i suoi esordi nazionalistici, a partire dalla fine degli anni Novanta il conflitto in Cecenia ha assunto una dimensione perlopiù jihadista. Nel conflitto si sono distinti alcuni capi stranieri, come i sauditi Ibn al-Khattab e Abu Omar al-Saif, mentre dei rappresentanti di Al-Qaeda, come Haled Yusef Muhammad al Emirat, noto con il nome di Moganned, elargivano fondi ai comandanti che simpatizzano con la loro causa. Oggi tutti e tre sono morti, e il centro di gravità dell’insurrezione si è spostato fuori dalla Cecenia per assestarsi nel Dagestan e in Inguscezia. Qui le jamaats – le gang antigovernative – conservano un’impronta essenzialmente nazionalistica, non interessata alla politica in senso ampio o alla jihad globale. E mentre Doku Umarov, autoproclamatosi leader dell’"Emirato del Caucaso", rivendica il comando assoluto, la sua autorità rimane chiaramente limitata.

Tuttavia l’arrivo di combattenti veterani provenienti dalla Siria, che si tratti di ceceni o di alleati giunti da altri teatri di guerra e sostenuti da nuovi fondi e nuove armi, potrebbe mutare ancora una volta gli equilibri. Umarov è un jihadista, e appoggia apertamente la rivoluzione siriana: probabilmente sarebbe lui a beneficiare di un tale influsso, che potrebbe contribuire a dare nuovo impeto alla sua guerra agonizzante e radicalizzare ulteriormente l’insurrezione nel Caucaso settentrionale.

Anche se le autorità russe faranno comprensibilmente il possibile per scongiurare che ciò accada, quello di proteggere la frontiera del Caucaso settentrionale si è dimostrato un compito problematico. Ironicamente, ciò dà a Mosca motivo di sperare che i combattimenti in Siria si protraggano sino a sfociare nella guerra civile che si presume sarà inevitabile dopo la caduta del regime. Dopotutto, una volta conclusa quella guerra, c’è la possibilità che le forze dell’"internazionale jihadista" facciano ritorno a casa.

Mark Galeotti insegna Affari Globali presso la New York University. Il suo blog, “In Moscow’s Shadows”, può essere letto cliccando qui.

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