La guerra in Iraq dieci anni dopo

Vignetta di Niyaz Karim

Vignetta di Niyaz Karim

Il 20 marzo 2003, gli Stati Uniti davano inizio all'attacco al regime di Saddam Hussein. Quali vantaggi ha portato il conflitto al sistema politico internazionale?

Dieci anni fa, nella notte tra il 19 e il 20 marzo 2003, gli Stati Uniti di George W. Bush intrapresero la campagna d'Iraq, un conflitto su larga scala senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. L’invasione, pianificata per dimostrare la capacità dell’America di controllare i processi internazionali e dettata dalla necessità di cambiare corso politico, ha tuttavia prodotto i risultati opposti.

Nel conflitto sono rimaste uccise alcune migliaia di americani: non durante i blitz bellici, ma negli anni successivi, durante il processo di “costruzione della nazione” (senza parlare poi delle vittime civili irachene, le cui stime ammontano almeno a decine di migliaia). Il rovesciamento di Saddam Hussein ha avuto come effetto il fortissimo incremento dell’influenza dell’Iran – il più acerrimo nemico degli Stati Uniti – su Baghdad.

Le centinaia di miliardi sprecati nel conflitto hanno inasprito i problemi economici del Paese, che erano già rilevanti. La credibilità americana è stata minata, a prescindere dal fatto che i funzionari abbiano mentito o meno sul presunto possesso di armi chimiche da parte di Saddam Hussein o che abbiano  intenzionalmente voluto crederlo.  

Nei termini di non proliferazione delle armi di distruzione di massa l’effetto prodotto è stato l’opposto: chi ha pensato di crearle si è convinto che occorreva fare in fretta perché solo la presenza di una bomba poteva fornire una garanzia di evitare il patibolo.

Il processo di democratizzazione del Medio Oriente, intrapreso con la forza in Iraq, si è poi trasformato nelle insurrezioni spontanee della “primavera araba”, scoraggiando i nuovi regimi che fanno leva dovunque sugli umori anti-occidentali della maggioranza.

Tutto ciò è comunemente riconosciuto e non è contestato neppure da coloro che 10 anni fa hanno acclamato la liberazione dal “dittatore più crudele del mondo”. Ma proviamo a valutare la guerra in Iraq del 2003 da un altro punto di vista, vale a dire da quello dei vantaggi prodotti per il sistema politico internazionale.

Innanzitutto, ha inferto un duro colpo all’arroganza degli Stati Uniti, che alla vigilia del conflitto iracheno, sull’onda dello choc provocato dall’attentato terroristico dell’11 settembre 2001 e della successiva mobilitazione, hanno cominciato seriamente a considerarsi un impero mondiale. L’attuale linea moderata di Barack Obama (relativa, ma inusuale per un presidente americano) è il frutto di un’elaborazione dell’esperienza irachena.

La guerra in Iraq ha riportato alla ribalta della politica internazionale il Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Quando gli Stati Uniti decisero di non tener conto delle sanzioni dell’organo supremo delle Nazioni Unite sembrava che il ruolo politico dell’Onu dovesse avere fine.  Forti e sicuri di sé le avrebbero semplicemente ignorate.

Ma di lì a poco fu chiaro che la delegittimazione dell’intervento, che poteva venire solo dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, poteva divenire un ostacolo quasi insormontabile. Si poteva reclutare una “coalizione di volontari” guidata dagli Stati Uniti che sostituisse la Nato, come fece l’allora ministro della Difesa Donal Rumsfeld, ma il vuoto giuridico paralizzava ogni azione. Senza l’approvazione formale dell’organo plenipotenziario dell’Onu, rovesciare un regime era facile, ma non si poteva costruire nulla di stabile. Già ai tempi dell’amministrazione Bush, Washington aveva dovuto riconsiderare le proprie posizioni sulle strutture dell’Onu, ritenute un inutile peso.

Oggi il Consiglio di Sicurezza dell’Onu e le altre istituzioni delle Nazioni Unite non sono giudicati strumenti ideali e vengono sottoposti da varie parti a critiche fondate, ma nessuno è riuscito finora a proporre un’alternativa più concreta e più affidabile. Negli ultimi 10 anni abbiamo potuto verificare come le procedure dell’Onu si siano rivelate efficaci nello sbloccare situazioni senza via d’uscita.

La guerra in Iraq ha messo in rilievo le differenze esistenti tra le due sponde dell’Atlantico. I principali Paesi europei hanno rifiutato di partecipare al conflitto. A distanza di un decennio si può naturalmente affermare che all’unità transatlantica non è stato inferto alcun colpo fatale: le aspre divergenze sono state dimenticate (in America avevano persino incitato al boicottaggio di tutti i prodotti francesi).

Tuttavia, è risultato chiaro che la Nato non adempirà alla funzione di gendarme del mondo. La maggioranza dei Paesi membri o è impreparata o è in grado di dare la loro adesione in modo puramente simbolico. La ricerca di una nuova missione dell’Alleanza prosegue e negli ultimi tempi sembra delinearsi nella forma di un’organizzazione militare regionale in grado di conseguire obiettivi nelle immediate  vicinanze della zona di origine della responsabilità (quella euroatlantica).

Per la Russia non si tratta di una notizia troppo positiva: finora questa immediata vicinanza si situa verso Sud, ma esiste anche una tendenza a spostarsi verso Est. A confortare è il fatto che il potenziale militare dell’Europa si sta riducendo, mentre l’America guarda sempre di più all’Asia, anziché al Vecchio Mondo. 

Per la leadership russa la guerra in Iraq è stata una tappa miliare per due motivi. Il primo è che ha sensibilmente intaccato la fiducia in una politica occidentale lungimirante, prudente e razionale. A Mosca si era detto fin dall’inizio che non sarebbe sortito niente di buono da questa avventura e con ragione, ma la Casa Bianca di Washington è andata dritta per la sua strada.

Il secondo motivo è che è stato avviato un percorso di incremento delle possibilità per affrontare qualunque sviluppo degli eventi. I potenti fanno ciò che vogliono, nessun diritto internazionale può fermarli. Da allora la Russia parte dal presupposto che tutto è possibile, qualunque cosa. Perciò si deve essere prudenti, ma pronti a combattere. Non si tratta di una strategia, ma di una tattica, ma per un po’ questo approccio potrebbe anche funzionare.

Fedor Lukyanov è presidente del Presidium del Consiglio sulla politica estera e di difesa

Il testo dell’articolo è pubblicato in versione ridotta. Per leggere la versione originale cliccare qui

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