Vignetta di Niyaz Karim
L'uccisione del leader dell'opposizione a Tunisi ha generato un'ondata di disordini e crisi politica. In Egitto il secondo anniversario della “rivoluzione di Tahrir” ha portato a una nuova spirale di tensioni e a una escalation di violenza. In Siria i ribelli annunciano l'ennesima e decisiva aggressione su Damasco.
A due anni di distanza dall'inizio della “primavera araba” si fa largo la sensazione che tutto stia ricominciando da capo. Comunque sia, la situazione è nettamente diversa da quella dell'inizio del 2011, soprattutto per quanto riguarda le forze esterne. Sono loro che ben presto dovranno di nuovo scervellarsi per capire quale comportamento tenere nella mutevole realtà del vicino Oriente.
Si sta verificando un inevitabile processo di scelta per una strada definitiva da seguire. Le forze laiche e più liberali, insoddisfatte degli esiti degli stravolgimenti, protestano nella speranza di limitare i nuovi reggenti. Gli islamisti sono costretti a usare la forza per mettere tutti al loro posto.
Il ritorno a regimi repressivi modellati su quelli precedenti, ma sotto l'egida di altri slogan, è poco probabile, poiché la popolazione degli Stati arabi ha accolto favorevolmente lo spirito democratico. I sistemi autoritari vanno fuori di moda con gran rapidità persino in quei luoghi dove – come sembrava fino a pochissimo tempo fa – non pareva poterci essere nient'altro.
Non c'è però da aspettarsi un pluralismo di stampo occidentale, tanto più che i risultati delle elezioni hanno dimostrato con chiarezza che un'indiscutibile minoranza è a favore dei partiti secolari. Perciò le forze islamiche si appelleranno a pieno diritto alla volontà della maggioranza della popolazione, per contrastare il malcontento.
L'Occidente si ritrova in una strana situazione, dato che diventa sempre più difficile spiegare chi voglia sostenere nel vicino Oriente e per quale motivo. L'argomento della necessità di essere “dalla parte giusta della storia”, che risuona dai primi giorni della primavera araba, sta perdendo presa, in quanto quella stessa “parte giusta” esercita sempre di meno il suo fascino, per lo meno dal punto di vista occidentale.
Ancora più confusa è la linea di condotta nei riguardi dei conflitti armati. La situazione per cui in Libia e in Siria i Paesi occidentali di fatto appoggiano coloro su cui hanno la meglio nel Mali, è fonte di sempre maggiore confusione, e ciò si avverte soprattutto in America. Il significativo calo d'entusiasmo nei confronti dei ribelli siriani e persino l'avvicinamento dell'America all'approccio russo ne è la riprova.
Per quanto la Siria sia importante, è l'Egitto a rimanere il Paese chiave per la futura ridistribuzione delle forze e non a caso la visita del presidente dell'Iran Mahmud Ahmadinejad ha calamitato l'attenzione generale. I leader iraniani non visitavano il Cairo dai tempi della rivoluzione islamica.
Quasi subito dopo l'ascesa al potere, coincisa con la violenta esplosione dell'incendio siriano, Muhammed Mursi ha fatto capire che non ha intenzione di unirsi all'intransigente linea antisiriana portata avanti dalle monarchie del golfo persico, con l'Arabia Saudita in prima fila.
Il passaggio delle navi iraniane attraverso il canale di Suez, il viaggio di Mursi a Teheran al summit del Movimento dei Paesi non allineati, le offerte del Cairo di creare un'unione di quattro forze regionali con la partecipazione dell'Iran: tutto questo dimostra che l'Egitto ha intenzione di ripristinare il suo ruolo di attore regionale autonomo che aveva avuto fino all'accordo di Camp David con Israele nel 1979.
D'altra parte, in effetti, l'Egitto sta attraversando profondi problemi economici (le rivoluzioni non nascono per caso), ma gli sposor del Cairo – vecchi (gli Usa) e nuovi (il Qatar e l'Arabia Saudita) – sono categoricamente contrari, ognuno con le sue motivazioni, a un avvicinamento a Teheran.
È probabile che le elezioni presidenziali in Iran diventino l'evento principale del 2013 per la politica di quelle zone. L'uscita di scena di Mahmud Ahmadinejad, personalità odiosa, può aprire nuove possibilità al mercato diplomatico e politico, chiunque andrà a prendere il suo posto. Cambiando la propria linea Tehran avrebbe la possibilità di diventare molto influente.
La trasformazione del vicino Oriente è appena all'inizio e la questione dei suoi principi ideologici e geopolitici rimane, come prima, aperta. Ma più si va avanti, più cresce la sensazione che le dinamiche interne – ovvero gli interessi, le peculiarità e la volontà di quegli stessi Paesi e delle loro popolazioni – giocheranno un ruolo di gran lunga più importante di qualunque influenza esterna, per quanto potente possa essere.
La “primavera araba” è diventata una tappa fondamentale della politica mondiale nel senso che ha costretto tutti, Stati Uniti inclusi, a seguirne gli avvenimenti e a condurre una politica non attiva, in grado di creare un nuovo scenario, bensì reattiva, che seguisse gli eventi.
Se si traccia un parallelo con il 1989 anche in quel caso molti astuti strateghi furono colti di sorpresa. Tuttavia allora gli Usa e l'Europa occidentale ritrovarono subito la bussola e presero in mano la situazione, determinando e regolando il corso di tutto ciò che accadde dopo. La “primavera” costringe a inventarsi quasi a ogni passo un nuovo modello comportamentale per non rimanere indietro rispetto ai rapidi stravolgimenti. Il gioco senza regole a “acchiapparello” è appena cominciato.
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