Vignetta di Sergei Elkin
I Paesi Brics si sono riuniti sotto un criterio formale: la grandezza. Brasile, Cina, Russia e India possiedono grandi mercati. Il Sud Africa non è tanto ampio come i suoi compagni d’acronimo, ma può vantare una solida base industriale che lo pone in evidenza rispetto agli altri governi della regione. Non a caso proprio la Repubblica del Sud Africa è il fulcro dell’Unione doganale dell’Africa meridionale che può essere intesa come la base per una futura e più profonda integrazione.
Direttore del Centro di ricerche economiche dell’Istituto di globalizzazione e movimenti sociali (Igso). Laureato presso l’Università statale di comunicazione della Siberia (Sgups). Ha insegnato Politologia e durante il percorso di dottorato si è specializzato nello studio della leadership politica. Nel biennio 2004-2006 ha lavorato nell’équipe dell’Istituto dei problemi di globalizzazione (Iprog) e nel 2007 è passato all’Igso. Si occupa parallelamente di giornalismo, pubblicità e consulenza in relazioni pubbliche. Presso l’Igso risponde dell’unità di ricerche, previsioni e analisi
A dicembre 2012 il nostro istituto, in collaborazione con il Fondo “Rosa Luxemburg”, ha organizzato una conferenza internazionale dedicata ai Brics. L’interesse per questo gruppo di Paesi da cui provenivano gli esperti è stato dettato dallo sforzo di comprendere quale ruolo queste nazioni fossero in grado di assumere nello sviluppo mondiale.
L’alleanza convenzionale di questi cinque Stati li ha posti in primo piano rispetto alle piccole economie del capitalismo neoliberale degli anni Ottanta-Duemila. In questo lasso di tempo, il numero di Paesi nel mondo è notevolmente aumentato. Fino all’inizio della crisi globale, nel 2008, le dimensioni di un Paese definivano in linea di massima le dimensioni del mercato, dando in concomitanza la possibilità di una crescita più autonoma.
Con l’inizio della crisi invece le grandi “economie in via di sviluppo” hanno avuto l’occasione di diventare centri di potere, un nucleo di sviluppo opposto a quello vecchio.
La Repubblica cinese è stata la prima in cui le speranze sono venute meno; dopo aver dissipato le forze della crescita economica i grandi potenti della Terra hanno appoggiato la stabilità dell’economia mondiale. La Cina però non è diventata la nuova locomotiva del capitalismo globale.
È anche significativo che nessuno dei Paesi dei Brics nel biennio 2010-2012 abbia perso il controllo sui processi delle loro economie. La crescita era presente a diversi livelli, ma gli indicatori maggiori (nel caso della Cina) costituivano piuttosto una minaccia. Da nessuna parte gli sforzi dei governi per sostenere le economie nazionali hanno contribuito a eliminare il fantasma di una profonda recessione. Da nessuna parte il corso della politica economica è cambiato così tanto da poter parlare di una rottura con il neoliberalismo. Questo però non cancella le prospettive di crescita.
Per molti analisti, nei prossimi decenni, sarà la Cina l’avversario degli Stati Uniti. Secondo la nostra analisi (relazione dell’Igso, Istituto di globalizzazione e movimenti sociali, “Protivorechija ekonomiki Kitaja: zamedlenie kak okonchanie chuda – Le contraddizioni dell’economia della Cina: un rallentamento come fine del miracolo”) ad attendere la nostra Terra ci sono una profonda recessione e smottamenti politici.
Soltanto in seguito la Cina proseguirà nel suo sviluppo. A questa previsione bisogna aggiungere un fatto: tutti i più grandi mercati, uniti nel gruppo dei Brics, diventeranno con ogni probabilità rivali degli Usa. Al posto di un polo unico nel sistema dell’economia mondiale ne esisteranno molti.
Nei prossimi anni il ruolo dell’Unione Europea potrebbe diventare molto specifico. La crisi subita è la conseguenza della rinuncia da parte dei vertici finanziari europei all’integrazione senza discriminazione dei “ritardatari”, la disfatta del loro settore reale e della sfera sociale. Di fatto i Paesi dell’Europa occidentale, se non avverranno sconvolgimenti interni radicali, saranno costretti a lottare contro il blocco raccolto intorno alla Russia per esercitare una qualche influenza nell’Europa orientale e meridionale.
Sarebbe però inesatto pensare possibile un tale scenario senza postulare cambiamenti in Russia. E il meno che possa capitare è la rottura con Wto, Fondo Monetario Internazionale e Banca mondiale. Il neoliberalismo e la crescita sono inconciliabili in qualsiasi punto del pianeta.
I mercati più importanti cresceranno sulla nuova ondata di ripresa economica mondiale, per molti versi in modo parallelo, cercando probabilmente in tutti i modi di produrre a casa propria e spesso tagliando fuori dal proprio mercato i concorrenti. Nell’ambito di un’economia di “lavoro costoso” da cui non possiamo prescindere, per quanto sforzi facciano i liberali in economia, l’innalzamento del prezzo della forza lavoro deve diventare uno degli strumenti principali per stimolare la crescita interna tecnico-industriale. Ne siamo ancora ben lontani, ma potenziare la regolamentazione e il protezionismo economico possono rendere più vicino un futuro di questo genere.
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