La nave da battaglia “Novorossiysk”, inizialmente chiamata "Giulio Cesare" (Fonte: Wikipedia)
Emergono nuovi dettagli sul mistero della “Novorossiysk”. Il 16 ottobre 2013, nella città di Voronezh, si è svolta la presentazione del libro dell’ammiraglio Nikolai Titorenko sull’affondamento della corazzata. L’opera di Titorenko presenta una versione diversa da quella ufficiale relativa all’incidente avvenuto nella baia di Sebastopoli il 29 ottobre 1955.
Prima di essere ceduta all’Unione Sovietica, come risarcimento per i danni di guerra, nel 1949 la nave militare “Novorossiysk” portava il nome di “Giulio Cesare” e la bandiera della Marina Militare Italiana. Dieci anni dopo, in una buia notte d’ottobre, una forte esplosione sotto lo scafo squarciò tutti i ponti dalla corazzatura inferiore fino al ponte del castello di prua, provocando, sul fondo dell’imbarcazione, un cratere delle dimensioni di 152 metri quadrati. Nonostante a bordo vi fossero sette ammiragli, i tentativi di salvare la nave furono vani: dopo due ore e mezzo la “Novorossiysk” si capovolse sul lato sinistro e affondò lentamente dalla prua. Al calare della notte, lo scafo era già completamente scomparso sott’acqua.
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L’affondamento causò la morte di 614 marinai, molti dei quali rimasero intrappolati nei compartimenti della nave: i sommozzatori smisero di sentirli battere dall’interno il 1° novembre. Una commissione governativa stabilì che l’inabissamento della “Novorossiysk” fu causato dall’esplosione di una mina deposta dai tedeschi durante la guerra. Titorenko ha completamente demolito questa versione.
“Effettivamente, nel corso delle indagini i sommozzatori rinvennero sul fondo della baia di Sebastopoli diverse mine. Nessuna, però, sarebbe potuta deflagrare nel 1955, poiché, dopo oltre 10 anni, le batterie dei loro inneschi elettrici erano ormai scariche”, ha raccontato l’autore del libro. Secondo Titorenko, invece, nell’affondamento della “Novorossiysk” sarebbero coinvolti gli italiani. Durante il trasferimento in mani sovietiche della corazzata, che portava in origine il nome di “Giulio Cesare”, il principe Valerio Borghese, capitano dell’unità speciale della Regia Marina italiana X Flottiglia MAS, giurò che non avrebbe in alcun modo permesso che l’imbarcazione finisse sotto la bandiera rossa.
“Quelle del principe Borghese non erano semplici chiacchiere al vento. La ricompensa era incredibile, la zona dell’operazione conosciuta e ormai familiare. Eravamo dopo la guerra, i Soviet si erano rilassati. Il porto veniva chiuso con una barriera flottante solo di notte, ma ciò non costituiva un ostacolo per i sommergibilisti”, ha raccontato un sommozzatore italiano che partecipò all’operazione chiamata “Nicolò”. La sua storia dovette passare per la bocca di altre due persone prima di diventare famosa: l’italiano la riferì a un ufficiale della marina sovietica emigrato negli Stati Uniti, che a sua volta la raccontò al capitano di primo rango in pensione, lo storico Oktyabr Ber-Biryukov, il quale pubblicò un articolo sull’affondamento della “Novorossiysk”.
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I preparativi durarono un anno. Ciascuno degli otto sommozzatori che parteciparono all’operazione avevano alle spalle una robusta formazione in operazioni di sabotaggio nel Mar Nero. Nella notte del 21 ottobre, dall’Italia partì, in direzione Unione Sovietica, una nave mercantile con a bordo il minisottomarino SX- 756 “Piccolo”. Giunta in prossimità di Capo Khersones, l’imbarcazione a vapore liberò il sottomarino attraverso un’apertura nella parte inferiore. Il sommergibile entrò nella baia di Omega, dove l’equipaggio allestì una base segreta: i sabotatori scaricarono bombole d’aria di riserva, esplosivi, idropropulsori e altri materiali. Al segnale convenuto, i sommozzatori indossarono gli scafandri e si diressero con gli idropulsori e gli esplosivi in direzione della chiglia della “Novorossiysk”.
“La visibilità era terribile, lavorammo utilizzando praticamente solo il tatto: lo spessore del limo sul fondale della baia di Sebastopoli raggiunge i 20 metri. Facemmo più volte ritorno alla base per prendere altri esplosivi, avvolti in un involucro magnetico. Finimmo il lavoro al tramonto. Nella fretta ci dimenticammo sul fondale una borsa con gli attrezzi e l’elica di riserva di un idropropulsore - ha raccontato il sommozzatore italiano -. Ritornammo alla baia di Omega e salimmo a bordo del minisommergibile. Raggiungemmo il punto di incontro e due giorni dopo arrivò una nave mercantile. Ci posizionammo nella parte inferiore dell’imbarcazione, chiudemmo il portello e pompammo fuori l’acqua. Per finire, demmo tre colpi alla paratia come segnale che la missione era stata portata a termine”.
Il 22 agosto 2013, il veterano della Xª Flottiglia MAS, Ugo D’Esposito, ha ammesso di aver preso parte all’operazione di sabotaggio che portò all’affondamento della nave da battaglia. Il comando delle forze speciali non voleva che la “Giulio Cesare” diventasse una corazzata sovietica.
“Il lavoro di Nikolai Titorenko costituisce un contributo importante, dal momento che getta luce sul crimine del secolo - ha dichiarato l’ammiraglio Igor Kasatonov -. L’autore non ha ripetuto, come molti altri, la versione secondo cui il dramma della “Novorossiysk” sarebbe stato causato da una mina. Ha modellato la storia in una chiave diversa, che risulta convincente anche per un professionista. Già in precedenza era emersa l’ipotesi di un sabotaggio per mano di servizi segreti stranieri. Ma nessun ricercatore si era preoccupato di verificare questa pista”.
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