Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, al tavolo con il suo staff per discutere la situazione in Siria e un possibile attacco a Damasco (Foto: Pete Souza / Official White House)
Nel summit dei leader mondiali, che ha aperto i suoi lavori a San Pietroburgo, la principale questione dell'agenda non ufficiale non è la situazione del sistema finanziario mondiale, bensì la crisi siriana. La maggior parte degli analisti e dei giornalisti afferma che il presidente americano Barack Obama tenterà di sfruttare questa occasione per raccogliere consenso per la sua decisione di impiegare la forza militare nei confronti della Siria. Tutto ciò accade sullo sfondo della più grave crisi nei rapporti russo-americani dai tempi del bombardamento della Jugoslavia.
Nonostante tutto, è legittimo domandarsi: è proprio vero che tra pochissimo gli Stati Uniti lanceranno un attacco contro la Siria? E quale sostegno cercherà di ottenere in realtà il presidente Obama dai partecipanti del G20 a San Pietroburgo?
Considerando il fatto che il presidente americano, dopo aver annunciato la "decisione definitiva di impiegare la forza militare", sta prendendo tempo per la ratifica dell'attacco alla Siria e sta aspettando il voto del Congresso degli Stati Uniti, cercando di ottenerne l'appoggio, e che il Comitato per gli Affari Esteri del Congresso ha stabilito che Obama avrà 60 giorni per dare ordine alle forze armate americane di usare la forza contro Damasco e altri 30 giorni in seguito per sferrare l'attacco, si ha la netta sensazione che l'attacco in realtà non ci sarà.
Gli Stati Uniti stanno facendo preparativi troppo lunghi per il bombardamento, lasciando così a Bashar Assad tutto il tempo per prepararsi a un'azione militare. Troppo eloquente appare il rifiuto dell'alleato più stretto nella Nato, la Gran Bretagna, a partecipare a questa azione militare.
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L'impressione è che in verità Obama stia cercando febbrilmente una via d'uscita "dignitosa" da questa intricata situazione, nella quale lui stesso si è andato a cacciare decidendo l'attacco, e non sferrandolo poi entro 24 ore dal suo annuncio. Pare che egli abbia bisogno di dimostrare agli americani e al mondo intero di avere manifestato la ferma intenzione di "punire" il dittatore siriano. Obama però non vuole passare alla storia come un vincitore del premio Nobel per la pace che impiega la forza militare contro un Paese sovrano, perché sembrerebbe una farsa: lui, che ha una formazione giuridica, questo lo comprende bene ed è assai preoccupato per il proprio futuro politico.
Il summit di San Pietroburgo non solo prevedeva un teso colloquio con il Presidente russo Putin, ma anche una serie di non facili chiarimenti con i partner del G20. A quanto pare, il presidente Obama in questo momento ha bisogno di un altro tipo di sostegno da parte dei partecipanti al summit: deve uscire da un vicolo cieco con il minor danno possibile e convincere il popolo americano che come politico egli ha fatto tutto ciò che poteva, ma le circostanze sono tali per cui è meglio combattere contro il regime di Assad per mezzo degli arabi stessi, sostenendo gli insorti, aumentando le forniture di armi e inviando nel Paese dei mercenari.
Quanto alla discussione della questione siriana al Congresso, probabilmente essa non si limiterà a una sola giornata, ma si impantanerà nelle infinite formalità procedurali e negli interventi dei personaggi chiave e degli esperti. La decisione di concedere al presidente Obama la possibilità di avviare l'operazione contro la Siria entro 60 giorni assomiglia troppo a un'abile rinvio dell'opzione militare, che del resto soddisfa appieno il capo della Casa Bianca.
Naturalmente, sul presidente Obama stanno esercitando una pressione senza precedenti le forze di estrema destra degli Stati Uniti e il settore dell'industria militare americana. Il mondo assisterà anche ai tentativi da parte di queste forze di convincere quanti non sono d'accordo a trascinare l'America nell'ennesima avventura militare. In effetti, quest'ultima non porterà soltanto a un vasto conflitto regionale nel quale si troveranno coinvolti il più stretto alleato di Washington in quell'area, Israele, e anche la Turchia, e all'ascesa al potere in Siria degli islamisti radicali che sfrutteranno il sostegno di Washington per poi rivolgersi contro i loro stessi sostenitori.
Quest'avventura porterà a una gravissima esasperazione della situazione internazionale, con conseguenze a livello mondiale. Ad esempio, il programma di non proliferazione degli armamenti nucleari, alla cui prosecuzione gli Stati Uniti tengono tanto, crollerà, perché l'Iran deciderà una volta per tutte che per esso è di vitale importanza realizzare la bomba atomica per prevenire qualsiasi aggressione dall'esterno, e ciò innescherà una reazione a catena tra gli altri Paesi potenzialmente orientati alla proliferazione nucleare.
Gli Usa sono disposti a pagare un simile prezzo per "l'attacco limitato" alla Siria? Sembra che il presidente Obama comprenda benissimo che la risposta è no. La crisi siriana dimostra di fatto ciò che a mio parere è diventato evidente già grazie all'esempio dell'Iraq e dell'Afghanistan: l'epoca dell'egemonia indiscussa degli Stati Uniti nelle questioni mondiali sta rapidamente diventando un ricordo; il mondo non è più monopolare e l'unica superpotenza globale in realtà ormai non è più tale. Aspettiamo dunque il 9 settembre 2013.
Vladimir Sotnikov è collaboratore scientifico senior del Centro per la sicurezza internazionale dell'Imemo (Istituto di economia mondiale e relazioni internazionali presso l'Accademia russa delle Scienze) e del settore Vicino e Medio Oriente dell'Istituto di studi orientali dell'Accademia russa delle Scienze
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