Foto: Alexei Shichkov
All’inizio dell’estate 2013, in piazza Taksim, a Istanbul, hanno avuto luogo proteste di massa contro la politica del premier Erdogan. Russia Oggi pubblica il racconto dell’attivista di sinistra Alexei Shichkov, in quei giorni a Istanbul, sugli eventi a cui ha assistito e di cui ha parlato sulla sua pagina Facebook
Foto: Alexei Shichkov
Ho seguito gli avvenimenti in Turchia fin dalle primissime battute: ho letto i reportage, mi sono iscritto a tutti i gruppi su Facebook legati a piazza Taksim e al Parco Gezi.
Così ho scoperto che c’è un forte movimento sindacale e di sinistra; queste persone scendono in piazza per ideali che sento miei. Da noi sono i liberali, che, per così dire, lottano per il bene assoluto contro il male assoluto. In Turchia, invece, le persone hanno richieste ben più concrete e ovviamente mi è venuta in mente la storia delle brigate internazionali durante la guerra civile in Spagna. È una motivazione molto forte: l’internazionalismo, la volontà di sostenere i compagni che hanno idee come le tue. A Istanbul ho incontrato dei tedeschi che dicevano la stessa cosa: non potevamo non venire.
In Turchia non c’ero mai stato prima, ma è stato tutto molto semplice. Ho trovato dei biglietti a buon prezzo, ho preso una telecamera, un sacco a pelo e sono partito. Dormivo per strada, una volta – durante un attacco con i fumogeni – i padroni di un bar ci hanno ospitato. Il primo giorno mi sono infilato nell’accampamento; sono arrivato e ho chiesto: “Mi potete dare un posto per dormire?” E subito mi hanno risposto: “Certo”. Hanno preso i cuscini e un tappetino.
Quando le persone venivano a sapere che ero russo ne erano contenti. Uno solo mi ha detto: “Cosa sei venuto a fare, vattene a casa”. Gli ho spiegato che è il mio modo di passare le ferie. Ognuno ha il suo, io le faccio così.
Ma è stato un caso unico. Tutti capivano che i mass media locali stavano zitti e un blogger dalla Russia era una cosa buona. Significava che era possibile fare breccia nel blocco anti-informazione. Qualche giornalista russo era stato da quelle parti, ma erano pochi, da Novaja Gazeta, da Kommersant. In una strada ho visto la scritta “Libertà per Taksim” in russo. Non so però chi l’abbia scritto.
Bisogna stare attenti a fare fotografie, da noi amano fare scatti sullo sfondo delle barricate o con gli Omon (unità speciali della polizia russa) in secondo piano. Poi, per colpa di quelle immagini, si finisce in galera, visto che sono una prova. I turchi lo dicono chiaro e tondo: foto yok, niente fotografie. E nascondo la faccia con le sciarpe.
Ho passato sei giorni a Istanbul e in quell’arco di tempo ho visto molte cose. Ho ripreso degli anarchici che distruggevano una banca, le grandi vetrine e il bancomat. Ho visto persone prendere una piccozza e spaccare la pavimentazione mentre qualcuno diceva: “Ragazzi, arrivano gli sbirri, 500 metri!”.
In piazza Taksim si erano riunite circa 200.000 persone. E non avevano fatto entrare la parte asiatica. Camminavano sul ponte e dagli elicotteri gli gettavano addosso il gas. C’erano le persone più diverse: islamisti, antifa, marxisti che parlavano tre lingue diverse: turco, inglese e tedesco. Piccoli proprietari, intellettuali, studenti, persone senza diritti di nazionalità, come i curdi. C’erano fanatici diciannovenni del posto che mi fotografavano cantando inni anarchici. Dicevano: "Che figata, sei venuto, solidarietà, tutto giusto". Non ci sono stati furti né ubriachi. L’organizzazione era sorprendente, le persone dicevano: "Oggi dormo io nell’accampamento, domani mia moglie, dopodomani mio padre". Facevano una colletta e portavano in piazza cibo e soldi.
Andiamo a fare due passi dal lato del commissariato di polizia; in quel momento inizia la dislocazione dei poliziotti. Accendo la telecamera e iniziano a registrare a livello delle ginocchia. Così non si vede. Guardo in camera, saltano fuori dei ragazzi che pestano con i piedi. In quel momento hanno iniziato a caricarci. Diciamo di essere giornalisti russi e loro ci fanno: “Cancella il video”. Faccio il finto tonto, fingo di non sapere come si fa. Alla fine ovviamente lo hanno tolto. E hanno aggiunto: “Forza, smammate”.
La paura vera c’è stata quando ci hanno lanciato addosso le granate. Ci sono stati tre attacchi con il gas, io l’ho respirato a fondo perché stavo vicino alla porta, mentre il proprietario del bar e i camerieri avevano fatto in tempo a scappare in bagno. All’epoca non sapevo ancora cosa fosse il gas OC, il peperoncino è fortissimo. Quando lo respiri insieme al fumo inizi a tossire e non finisci più, hai la gola distrutta e ti viene da vomitare.
Nei momenti di calma alcune ragazze alla moda tra i 19 e i 25 anni si facevano fotografare con maschere e caschetti. Poi caricavano gli scatti su Instagram. Quando invece si è scatenato l’inferno quelle stesse ragazze aiutavano i feriti. Se ti bruciavi con il gas si avvicinavano e ti spruzzavano in faccia del latte diluito con il limone. Erano ragazze normali, con le gonne corte e lo smalto sulle unghie. Ho visto i poliziotti che picchiavano delle ragazze a Izmir soltanto perché indossavano dei caschi.
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Questa non è la mia rivoluzione. Non sono andato per partecipare ai disordini e sapevo perfettamente come potevo essere d’aiuto: scrivere su Twitter, su Facebook, perché si sappia cosa sta succedendo. È curioso che mi leggessero anche i turchi, in quei giorni le informazioni non bastavano.
Lo slogan era per tutti: “Ovunque Taksim, ovunque resistenza”. In effetti è proprio così: già 74 città partecipano alla protesta. Manifesta chi vive ai bordi della penisola dell’Anatolia, città che si scontrano con altre civiltà. Sono più civilizzati, comprendono meglio la situazione.
Ora è tutto finito, Taksim è stata sgomberata. Allo stesso tempo però tutto continua. Ogni santo giorno scendono a Gezi, si riuniscono nei parchi e discutono cosa fare. Perquisiscono gli attivisti di sinistra ed è chiaro che il prossimo passo sarà vietare le organizzazioni. Le elezioni sono soltanto nel 2015, ma i turchi scenderanno prima in piazza, in modo preventivo: capiscono che il fascismo è dietro l’angolo.
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