In Egitto, l'islam politico ha il suo volto nei Fratelli Musulmani ma sta soffrendo una sconfitta schiacciante (Foto: Reuters)
Il leader dei Fratelli musulmani egiziani, Morsi, non è più il presidente dell’Egitto e ne ha preso atto il Dipartimento di Stato americano, ponendo così definitivamente una croce sulla possibilità di dialogo con l’Islam politico. A sua volta il presidente siriano Bashar Assad è stato uno di primi a salutare la sua destituzione. Come spiegare una simile consonanza di vedute tra due entità politiche tra loro così differenti come Washington e Damasco?
La successione al trono nel Qatar, le manifestazioni antigovernative in Turchia e, infine, il colpo di Stato militare in Egitto sono tutti anelli di un’unica catena: il manifestarsi di un attivo movimento di opposizione alla comparsa di un “Islam politico” in Medio Oriente, la cui forza principale era rappresentata dai Fratelli musulmani.
Ai primi di luglio 2013 l’emiro del Qatar, Hamad Ben Khalifa Al Thani, ha abdicato in favore del figlio. Il sovrano, più intento a occuparsi dei suoi problemi di salute che non di politica, ha regnato, ma senza governare. A guidare il Paese era Hamad Bin Jassim, che coordinava anche il dicastero della politica estera. Proprio grazie ai suoi sforzi il Qatar sarebbe diventato il principale attore politico nella regione, impegnandosi attivamente nella lotta contro il leader libico, colonnello Gheddafi, finanziando il movimento dei Fratelli musulmani in Egitto e rifornendo di armi i gruppi di ribelli siriani, secondo l’opinione di Viacheslav Matuzov, presidente dell’Associazione per l’amicizia e la copperazione coi Paesi arabi.
Il nuovo emiro, lo sceicco Tamm Ben Hamad Al Tani, ha nominato il nuovo premier, nonché ministro degli Affari esteri, Khaled Ben Mohammed Al-Attiyah, appartenente alla famiglia di sua madre. Questi cambiamenti, secondo Matuzov, preannunciano la nuova rotta verso un ruolo più equilibrato del Qatar nella regione, e in Egitto e in Siria.
Solo un po’ diversa, sebbene gli esiti siano simili, appare la situazione in Turchia, dove il primo ministro Erdogan ha dovuto fare i conti con le proteste di massa provocate dall’abbandono del corso laico dello sviluppo del Paese, voluto ancora da Atatürk. Le proteste, che sono scaturite dalla volontà di difendere gli alberi di piazza Taksim, si sono invece concluse con la richiesta delle dimissioni di Erdogan e si sono potute arrestare anche per l’eco delle critiche di Washington contro le misure estreme impiegate dalla polizia.
“Le manifestazioni erano dirette contro il regime di Erdogan. Per di più, il 60 per cento dei cittadini turchi non ha appoggiato il corso antisiriano e ciò, insieme ai disordini interni, influisce negativamente sulla stabilità politica di Erdogan”, afferma Stanislav Tarasov, esperto dell’Istituto internazionale di studi sui nuovi Stati. L’effetto che potrà quindi produrre il sostegno dato da Ankara ai Fratelli musulmani resta tuttora un grosso interrogativo.
In Egitto l’Islam politico, di cui si sono fatti promotori i Fratelli musulmani, ha subito una devastante sconfitta. L’organizzazione, creata già alla fine degli anni Venti dai servizi di sicurezza britannici per contrastare l’influenza comunista sui territori sotto mandato del Medio Oriente, aveva riscosso un rilevante consenso oltre i confini della capitale. Un anno e mezzo fa i Fratelli musulmani hanno potuto approfittare della destabilizzazione del regime di Mubarak, provocata dall’insurrezione della popolazione dei centri urbani, indirizzandola a loro favore e vincendo con un minimo scarto le elezioni presidenziali.
Ciononostante, a Morsi e ai suoi sostenitori - che pur non avendo nessuna esperienza di governo erano riusciti a imprimere una svolta politica all’Islam - è bastato un anno per trasformare i loro alleati in oppositori. Farli evacuare da piazza Tahrir non deve aver comportato una grossa fatica. Dopo di che l’esercito ha ripristinato lo status quo di un anno e mezzo fa, isolando nuovamente i Fratelli musulmani e abrogando la costituzione approvata mentre erano al potere.
I primi ad appoggiare il colpo di Stato sono stati i sovrani di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Kuwait, convenendo sul fatto che la Costituzione e il Corano devono stare su due scaffali ben distinti. Del resto, ancora in primavera Abdallah aveva dichiarato in un’intervista che i Fratelli musulmani di Morsi sono “lupi travestiti da agnelli”. Nei giorni scorsi i medesimi Stati, per rafforzare la loro posizione, hanno assegnato aiuti straordinari all’Egitto per 10 miliardi di dollari.
Washington si dissocia da valutazioni univoche sui fatti accaduti in Egitto. Tuttavia, il presidente Barack Obama ha già dato disposizioni per esaminare la questione dell’assegnazione di aiuti all’Egitto. Una questione che pesa per un miliardo e mezzo di dollari. Inequivocabilmente chiara al riguardo la dichiarazione della portavoce del Dipartimento di Stato americano, Jane Psak, che alla domanda dei giornalisti su come Washington vede Mohammed Morsi nelle vesti di presidente effettivo ha risposto in tono negativo: “Morsi non ricopre alcun incarico di leader effettivo”. A detta di Jane Psak, il Dipartimento di Stato americano non ritiene i fatti accaduti in Egitto un colpo di Stato. “Noi siamo dell’avviso che i 22 milioni di egiziani scesi in piazza hanno voluto rivendicare i loro diritti e dimostrare che la democrazia non è solo la libertà di votare alle elezioni”, ha osservato.
Suona come un verdetto. Un verdetto che sarebbe pronto a sottoscrivere anche il presidente della Siria. “In Egitto abbiamo assistito alla distruzione di ciò che si definisce Islam politico. Chi si serve della religione per scopi politici o per l’interesse di singoli gruppi è destinato a essere rovesciato dovunque” ha dichiarato Bashar Assad.
E qui si pone ineluttabilmente la questione delle relazioni degli Stati Uniti con Assad che da oltre due anni combatte non solo l’opposizione, ma anche gli integralisti islamici: miliziani salafiti, unità di Al Qaeda e anche “Fratelli musulmani”. Come si concilia il rifiuto degli Stati Uniti di dialogare con i sostenitori dell’”Islam politico” con il sostegno dato loro in Siria?
La cacciata di Morsi non risolverà i problemi dell’Egitto
La risposta va cercata nella decisione del Congresso di bloccare gli aiuti militari ai ribelli siriani. O nella proposta avanzata dall’opposizione nazionalista di cessare il fuoco durante il periodo del Ramadan. O anche nella tanto attesa decisione dell’Onu di accogliere l’invito del governo siriano di avviare i colloqui sulla questione delle accuse, mosse a entrambe le parti belligeranti, di adoperare armi chimiche.
In questo contesto va vista anche la prospettiva di una conferenza internazionale sulla Siria proposta congiuntamente dagli Stati Uniti e dalla Russia. Il rifiuto da parte degli Stati Uniti di dialogare con l’“Islam politico” induce a sperare in una sua realizzazione. Un’intesa potrebbe essere raggiunta, se non fosse per un “ma”: Washington si è spinta troppo oltre nelle sue pretese di destituzione di Assad.
In una recente intervista al giornale The National Interest, l’ex consigliere di Jimmy Carter per la Sicurezza nazionale, Zbigniew Brzezinski, ha posto una domanda che non è apparsa poi così retorica: “Perché abbiamo deciso a un tratto che la Siria doveva essere destabilizzata e il suo governo rovesciato? E sono state mai fornite al riguardo delle spiegazioni al popolo americano?”. Davvero, perché?
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