Attorno al 2005 Timur era un goth. Iniziò a lavorare sulla sua immagine dopo aver finito la scuola, in una piccola città di provincia. I social network ancora non esistevano (in Russia sono apparsi nel 2006), e così i ragazzi si conoscevano sui forum dedicati a queste sottoculture e poi si incontravano nelle periferie delle città, in posti spopolati “con atmosfera”, come ex fabbriche cadenti e vecchi cimiteri.
“Una sera eravamo in un cimitero e sentiamo qualcuno che viene avanti. Quando si avvicinano vediamo due adolescenti. Per un po’ di tempo continuano a titubare e si tengono l’un l’altro per le maniche, come se aspettassero che fossimo noi a dire qualcosa. Alla fine uno di loro chiede:
– Siete goth?
– Sì
– E in cosa consiste la vostra politica?
È stata la domanda più unica che mai mi sia stata data su questo tema.
In quei tempi in rete circolavano “le regole dei goth” e altri tentativi di prescrivere cosa dovesse o non dovesse fare un vero goth. Ma queste cose le potevano prendere sul serio solo dei ragazzini. Di solito la cosa funzionava come un club semichiuso. Che ti prendessero con loro o meno dipendeva dal livello intellettuale e culturale del gruppo e dei suoi leader: in alcuni era sufficiente ascoltare gruppi come gli HIM o i The Rasmus, in altri un tipo che ascoltasse quella roba sarebbe stato scacciato con ignominia. Di solito i gruppi litigavano su chi tra loro fosse fatto di “veri goth”.
“Per un anno intero, in quel periodo, vissi in un quartiere difficile, ma i bulletti del posto non mi sfiorarono mai nemmeno con un dito. Come seppi poi, mi avevano affibbiato il soprannome di Batman, e non mi avevano fatto problemi perché mi ritenevano un tipo strano, e ‘con i tipi strani è meglio non avere noie’.”
Il fenomeno dei goth è finito di colpo attorno al 2010. “All’improvviso sparì, diventando non di moda. I goth di ieri erano cresciuti, e ormai li aveva risucchiati la routine della vita quotidiana. Le serate goth iniziarono a vedere sempre meno persone presenti. Si arrivò al punto che delle persone incuriosite andavano in qualche posto dove era prevista una riunione per vedere i goth, e non ne trovavano neanche uno”, ricorda Timur.
Ora Timur è un imprenditore, ha 30 anni e gestisce un centro per a formazione degli psicologi. Il passato da goth lo testimonia solo l’amore per gruppi musicali come i Lacrimosa e i Sopor Aeternus & The Ensemble of Shadows, la passione per lo scrittore Edgar Allan Poe e la collezione di scarpe a suola alta, che però ormai sono parcheggiate nell’armadio. Ritiene che ogni generazione abbia il suo contesto, le sue mode: “Per i millenial russi questa era la sottocultura per antonomasia. E io non rimpiango per niente di avervi preso parte”.
“Sono già cinque anni che i miei genitori pensano a come sfasciarmi il computer. Prima per via dei videogiochi, ora degli anime. Finora sono riusciti solo a spaccarmi il monitor una volta. L’80 per cento dei miei amici pensa che non sia normale amare gli anime. Avevo solo un amico al quale piacevano, ma ora è andato militare. Per cui ora tutti quelli che mi circondano cercano di proibirmi di guardarli. E questo mi disturba. Scoppiò una vera crisi quando la mamma si accorse che guardavo l’hentai (il porno anime), e mi voleva persino portare dallo psicologo. Era rimasta scioccata. Avrebbe preferito che guardassi del vero porno, invece che dei cartoni animati che fanno sesso”, scriveva un utente in un forum, in un post del 2007.
La cultura degli anime arrivò in Russia alla fine degli anni Ottanta insieme con le prime copie pirata dei film. “Le cassette Vhs venivano dal Giappone e dagli Stati Uniti e spesso i ‘pirati’, per riempire il nastro, registravano ancora qualche serie tv dopo il film. Per esempio dopo ‘Cobra’ con Sylvester Stallone (1986) potevano infilarci un paio di puntate di ‘Ken il guerriero’”, racconta l’oggi trentottenne Nikolaj Novitskij. Da allora la sua passione non è mai diminuita. Continua ad andare ai festival di anime, aiuta a organizzarli e fa da presentatore.
“Oggi come oggi appaio più patito di anime che venti anni fa. Fino a due settimane fa avevo la cresta e i capelli verdi. Non devo andare al lavoro, per ora posso starmene a casa”, racconta. Prima Nikolaj lavorava come manager della logistica in un magazzino di medio-piccole dimensioni.
“Ci mettevamo gli anelli dilatatori nei lobi delle orecchie, ci bucavamo con i piercing le labbra, la lingua, qualcuno persino le guance. Ci coloravamo i capelli. Ai concerti ci tuffavamo dal palco sulla folla”, ricorda il ventiseienne Eduard. Allora faceva più o meno così chiunque si ritenesse un emo o un “alternativo”, due subculture senza nette divisioni; un insieme di metallari, punk e rapper.
“Mi ricordo che ci radunavamo in una cinquantina di persone per ascoltare canzoni e bere il Blejzer (un cocktail estremamente economico, venduto in bottiglie di plastica) e per tagliarci tutti assieme le vene”, ridacchia lui. “Dai, quanto alle vene scherzo. Anzi ci infastidiva molto lo stereotipo secondo il quale gli emo non facessero altro che piagnucolare e tagliarsi le vene. Così faceva solo chi non ragionava. In generale, noi eravamo solo degli adolescenti introversi, che però erano colmi di energia e di amore, e ci sostenevamo l’un l’altro”.
Adesso lui, a quanto dice, è un creativo, e gira dei video. “Quando ero adolescente, guadagnavo qualche soldino lavorando in un cantiere. Poi ho fatto il cameriere e il barman. E dopo ho capito che non fa per me. Seduto in ufficio non ci sono mai stato”, dice Eduard.
“Faceva molta paura l’idea di non essere nessuno, di non lasciare nessuna traccia dopo di noi”, ricorda la ventiseienne Karina, una ex alternativa. Nel 2007 aveva un suo gruppo. “Facevamo la colletta per raccogliere 150 rubli (che allora erano circa 6 dollari) all’ora per uno studio musicale foderato di cartone, che puzzava da morire di fumo, nel quale i microfoni davano la scossa e gli amplificatori si bruciavano ogni due per tre. Facevamo le prove…”, ride.
Allora internet andava con una carta prepagata che valeva per quattro ore di connessione e che si comprava nelle edicole. “Per questo stampavamo i testi delle canzoni in inglese trovate in rete, per poi poterle tradurre e poter pronunciare bene le parole. Adoravamo i Linkin Park e i Limp Bizkit”, dice Karina. Dopo che il suo gruppo si è sciolto lei ha fatto per un po’ la fotografa e ora fa la truccatrice: “La chitarra non la dimentico, ma ora non suono e non canto più davanti ad altri. Mi vergogno”.
Igor Kapranov, ex solista di uno dei più popolari gruppi metal russi dei suoi tempo, gli Amatory, a quanto pare ha vissuto la stessa radicale mutazione. Del passato da rockstar rimangono oggi solo i buchi nelle orecchie provocati dai tunnel dilatatori. Canta in un coro di chiesa e ritiene che la religione e l’amore per Dio lo abbiano salvato dalla depressione e dalle droghe.
C’è chi sostiene che le culture giovanili come le intendevamo in senso stretto siano scomparse, e che i goth e gli emo siano stati sostituiti da volontari e difensori dei diritti degli animali. In Russia la distinzione tra i millennial ormai segue altre direttive. “È il gender, la xenofobia, il patriottismo (la Crimea è nostra o non è nostra) e lo stile di vita salutare. E quest’ultima è probabilmente la più importante”, ritiene Elena Omelchenko che, all’Alta scuola di Economia, studia le subculture.
Ma c’è anche la teoria che le sottoculture non siano sparite. Ma siano solo finite in un cono d’ombra.
“Può essere che siamo diventati meno numerosi, ma comunque i rappresentanti delle sottoculture restano. Sarebbe come dire, se diminuisce il consumo di un tipo di carne, che le persone hanno smesso del tutto di mangiarla”, dice Nikolaj.
“Con il mio amico John siamo andati al concerto dei Jane Air [un gruppo rock russo, popolare tra gli emo] a Mosca nel gennaio del 2016. E là c’era un party emo. Proprio un vero party emo. Erano tutti pieni di piercing, con le frangette, i capelli tinti, e anche i vestiti erano quelli giusti! Per non parlare delle canzoni! Roba di culto per il 2007. Solo che io e John ormai non eravamo più quelli”, ricorda Eduard. “Anche se ce la siamo spassata a quel concerto, come ai bei vecchi tempi”.
Anche ai tempi dell’Urss non mancavano le sottoculture: fecero breccia al di là della cortina di ferro persino gli hippie
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