Addetti all'interno di una centrale (Foto: Getty Images / Fotobank)
Oltre alle prodezze di James Bond nella saga hollywoodiana di 007 e a quel che resta del muro di Berlino, c’è un’altra eredità lasciata dalla Guerra Fredda, non altrettanto dominante nell’immaginario collettivo ma, nel concreto, ben più ingombrante e difficile da smaltire.
Si tratta delle armi chimiche non ancora distrutte, i sommergibili nucleari in attesa di essere smantellati e l’inquinamento, che stanno richiedendo uno sforzo economico da parte della Federazione e un impegno di professionalità fuori dal comune. Con risultati finora incoraggianti anche grazie all'evoluzione delle tecnologie.
Secondo stime dell’Ong Green Cross, dal 1998 a oggi nel mondo sono state distrutte 56mila delle circa 72mila tonnellate di materiale chimico (78 per cento) e 3,8 degli oltre 8,5 milioni di armi (45 per cento): una quantità ingente, anche se molto resta ancora da fare. In Russia un caso emblematico dei danni provocati dall’industria bellica su ambiente e salute è la città di Dzerzhinsk, dove tra il 1930 e il 1998 sono state smaltite impropriamente 300mila tonnellate di rifiuti chimici.
Tra i principali centri di produzione di armi chimiche dell’ex Unione Sovietica, Dzerzhinsk è stata classificata, in un report curato dal Blacksmith Institute e da Grees Cross Svizzera, come uno dei dieci siti più inquinati del mondo. In alcuni punti le sostanze chimiche (190 quelle individuate nelle falde acquifere) hanno trasformato l’acqua in un fango bianco contenente diossine ed elevati livelli di fenolo, fino a far registrare un inquinamento 17 milioni di volte superiore ai limiti di sicurezza.
C’è poi un altro fronte su cui combattere il fardello lasciato dalla Guerra Fredda: i sommergibili nucleari. Sono principalmente tre le aziende addette allo smaltimento di questi giganti del mare all'interno della Federazione: si tratta di nomi noti all'interno della Federazione come Zvyozdochka a Severodvinsk (regione di Arkhangelsk), Nerpa in Snezhnogorsk (regione di Murmansk) e Zvezda nel Bolshoj Kamen (nell'Estremo Oriente).
Altri segnali positivi per il futuro arrivano da alcune indiscrezioni riportate qualche giorno fa da Ria Novosti, in base alle quali entro quest’anno verranno ritirati due dei più grandi sottomarini del mondo (classe Typhoon), il Severstal e l’Arkhangelsk, nel Mar Bianco, per poi essere smaltiti entro il 2018. In tutto sono sei i sottomarini di grandi dimensioni entrati in servizio nella Marina sovietica nel 1980.
Tre sono già stati distrutti; come detto altri due verranno smaltiti entro un quinquennio, mentre un altro, il Dmitri Donskoy, è stato modernizzato e rimarrà in servizio ancora per qualche tempo. Entro il 2014, inoltre, il cantiere navale Nerpa festeggerà la distruzione dell’ultimo sottomarino sovietico Krasnodar, lanciato nel 1985 e ritirato dalla Marina russa nel 2012.
Il processo di disarmo è un impegno che chiama a raccolta tutti gli Stati che hanno firmato accordi internazionali sul tema. Compresa l’Italia, che ha ridimensionato l’impegno iniziale di un miliardo di euro durante il G8 di Kananaskis (Canada) nel 2002, portandolo in un primo momento a 720 milioni di euro, quindi a soli 360 milioni.
"Finora – fanno sapere dal Ministero dello Sviluppo Economico - sono stati impegnati circa due terzi della somma prevista, di cui circa il 72 per cento è rimasto in Italia, considerato che i relativi contratti sono assegnati a imprese italiane (è il caso di Fincantieri, Techinnt, Ansaldo Nucleare e Mangiarotti)".
Elio Pacilio, presidente di Green Cross Italia, definisce l'atteggiamento italiano come "un punto di grande imbarazzo. Il nostro Paese – prosegue l'esperto - ha contribuito solo ai lavori per i sommergibili nucleari e proprio l’agenzia italiana Sogin, che doveva gestire questo processo, è stata investita da uno scandalo sull’uso dei fondi, che ha portato alla chiusura dell’ufficio di Mosca e al commissariamento della società nella Penisola".
L'articolo è stato pubblicato nell'edizione cartacea di "Russia Oggi" del 30 maggio 2013
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