Quando gli chiedevano se lui stesso scrivesse poesie, Evgenij Solonovich, il più grande italianista russo, traduttore dei versi di Dante e Petrarca, elargiva una risposta ambigua. “Scrivevo, ma prima degli anni Ottanta il risultato non mi convinceva”, spiega oggi, alla vigilia della presentazione della sua raccolta In mani fidate. Poesie 1981-2020 pubblicata in Italia da Passigli Editore, a cura di Caterina Graziadei e con traduzioni di Bianca Maria Balestra, Caterina Graziadei e Claudia Scandura (pp. 144, € 17,50, testo originale a fronte). “Traduco la poesia da anni, e gli amici italiani e russi mi hanno domandato più volte se scrivessi anche io. Il mio silenzio poteva significare ugualmente un sì o un no”. Dovettero passare quasi 30 anni prima che Solonovich, al quale si deve il merito di aver portato in Russia buona parte della poesia italiana, anche dialettale, iniziasse a prendere seriamente in considerazione l’idea di condividere i propri versi col pubblico. “Fino al 2012 non pensavo di pubblicarli - racconta -, infatti la prima pubblicazione fu sulla rivista Oktjabr. Mentre la prima raccolta Tra oggi e ieri risale al 2018”.
Oggi la “poesia meditativa e insieme colloquiale” di questo “tardivo esordiente”, come lo definisce Caterina Graziadei, sarà protagonista dell’incontro online gratuito e aperto a tutti organizzato dall’Istituto di Cultura e Lingua russa di Roma e da Russia Beyond, trasmesso in diretta Facebook il 18 maggio alle 17:30 (ora italiana; qui tutte le informazioni sull’evento).
L’antologia, basata su una selezione di versi tratti dalle sue due raccolte, Tra oggi e ieri e In questo mondo, “si interroga sulla storia e sul presente, fra gli assilli di un quotidiano assediato dai contatti virtuali, computerizzato eppure sempre venato da tracce calde di affetti”. Rievoca la moglie scomparsa e ricorda l’Italia, sua seconda Patria, con le rare citazioni di Dante o il componimento dedicato a Montale. “Ben sapendo di non sapere sciogliere / tutte le tue sciarade, / torno ogni volta indietro / lasciandomi alle spalle i segnalibri”, confida Solonovich al poeta genovese. “È una delle liriche che mi piacciono di più”, ammette. E aggiunge: “Mi fanno emozionare molto ancora oggi le poesie nate durante la malattia incurabile di mia moglie e dopo la sua scomparsa”.
Vincitore di numerosi premi in Russia e in Italia, insignito di due lauree honoris causa per la traduzione letteraria (a Siena e a Roma), durante la sua carriera Solonovich si è misurato anche con i dialetti italiani, trasponendo in russo non solo i poeti classici e moderni, ma anche coloro che hanno affidato la propria arte alle parlate locali: come Ignazio Buttitta, che si esprimeva in siciliano, e Giuseppe Gioachino Belli, che scriveva in romano e di cui Evgenij Mikhailovich è considerato il massimo interprete in lingua russa. “Buttitta fu il primo poeta italiano da me tradotto, e la mia fortuna fu di avere avuto, non mi ricordo da chi, la sua raccolta Lu pani si chiama pani, con a fronte la traduzione in italiano di Quasimodo - racconta oggi Solonovich -. Quanto al romanesco di Belli, a tradurre i suoi sonetti mi hanno aiutato i commenti dei suoi famosi studiosi, alcuni dei quali sono diventati più tardi i miei amici. Siccome il romanesco di Belli è la lingua dei popolani, ho cercato di risolvere il problema rivolgendomi al linguaggio popolaresco, alle espressioni proverbiali e gergali”.
Ed è proprio di Buttitta che egli serba uno dei ricordi più belli: “Fui ospite [da lui] per quasi un mese ad Aspra di Bagheria [Palermo, ndr] e ricordo con particolare affetto anche Mario Luzi, Giorgio Caproni e Giovanni Giudici”. Nomi che nel curriculum di Solonovich figurano accanto a quelli dei giganti della poesia, di cui egli si è nutrito senza però cedere alla tentazione di scivolare in troppe citazioni nei suoi personali componimenti. “Quale poeta ha influenzato più di tutti la mia produzione? È una domanda difficile - dice -, alla quale risponde nella prefazione una delle tre traduttrici, Caterina Graziadei, che vede nelle mie poesie l’influenza di Pasternak e di Zabolozkij”. E come fa notare Graziadei, la penna di Solonovich lo spinge a disegnare rime eleganti, spesso ardite, inusuali, ispirate da una “Musa modesta”, priva di enfasi, quasi familiare, che sembra aver atteso il momento in cui il grande traduttore e studioso avesse finalmente esaurito “il proprio debito con la letteratura italiana per scrivere ora parole proprie sul mondo, su ciò che abbiamo intorno e su ciò di cui la vita ha lasciato tracce”.
L’autore
Nato in Crimea nel 1933, Evgenij Solonovich è il maggior italianista russo. A lui si deve la traduzione di molta parte della poesia italiana, da Dante a Petrarca, fino ai moderni e contemporanei, come Ungaretti, Caproni, Montale e Magrelli. Ha formato generazioni di traduttori e la sua casa moscovita è stata e rimane il centro di un fervido scambio tra poeti, traduttori e allievi.
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