Lo spettacolo “Zio Vanja” per la regia di Kochalovsky (Foto: ufficio stampa)
“Cechov? Può essere anche molto noioso, sa?”. Andrei Konchalovsky, a Napoli per la regia di "Zio Vanja" e "Tre sorelle" in programma il 12, 13 e 14 giugno al Teatro Mercadante, è uno che sa come spiazzare il proprio interlocutore.
Chiarisce fin da subito che non ama le interviste, ma ci accoglie comunque sorridente nell’atrio dell’albergo che lo ospita, dopo una corsa distensiva sul lungomare napoletano. E alle domande risponde, a sorpresa, in un italiano un po’ incerto, ma sempre chiarissimo. Rivelando, forse, più di quanto avesse voglia di fare all’inizio.
Dopo "La bisbetica domata" di Shakespeare torna al Napoli Teatro Festival con due spettacoli tratti da Anton Cechov. Perché questa scelta?
L’anno scorso ho voluto presentare un’opera dal sapore tutto italiano come "La bisbetica", con ambientazione e attori italiani. Stavolta non saprei dire perché ho scelto proprio "Zio Vanja" e "Tre sorelle". Diciamo che ho voluto portare sul palco l’intero mondo di Cechov e la sua complessità perché questo autore è molto speciale per me. Mi identifico con lui. Anzi, sono proprio lui. Non sono capace di spiegarlo diversamente.
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Andrei Konchalovsky (Foto: ufficio stampa) |
Quindi ricorderà il primo approccio alla sua opera.
Cechov può essere a tratti anche noioso. Sono in molti a pensarlo, anche alcuni tra i tanti registi che l’hanno messo in scena (ride, ndr). Io ho compreso veramente Cechov quando ho iniziato a girare la trasposizione cinematografica di Zio Vanja, nel 1970. Prima, come molti altri, credevo di conoscerlo solo perché ne avevo letto le opere. Ma è un’illusione, la grande illusione di tutti i registi: un autore lo comprendi solo quando inizi a lavorarci su. È in quel momento che comincia a svelarsi a te.
I due allestimenti di quest’anno sono in lingua originale, il pubblico leggerà i sottotitoli su un maxischermo. Che effetto pensa potrà avere?
Un po’ straniante, senza dubbio. Guardare ciò che accade sul palco e contemporaneamente leggerne la traduzione è impegnativo, ma io credo che gli spettatori conoscano già le trame delle opere e possano orientarsi bene. E poi Cechov è come una musica: non c’è bisogno dello spartito per ascoltarla e apprezzarla. A Londra, dove siamo stati in tournée tra aprile e maggio, questa modalità di rappresentazione ha riscosso grande successo.
Nell’ambito del Festival anche l’argentino Marcelo Savignone e il lituano Rimas Tuminas porteranno in scena il celebre personaggio cechoviano: il suo Zio Vanja come si presenterà?
Venga a teatro e veda con i suoi occhi (ride di nuovo, ndr). Non amo dare spiegazioni e interpretazioni dei miei allestimenti. Il teatro è un puro atto di fiducia dello spettatore nei confronti del regista. Il pubblico deve avvicinarsi con l’animo di un bambino, sgombro da sovrastrutture e analisi pseudointellettuali, disposto a lasciare che il teatro, come l’arte in generale, tocchi e faccia vibrare le corde più profonde e vere dell’essere umano: il pianto, il riso, la paura. Era così nel teatro degli antichi, è così ancora oggi.
I tre zio Vanja di questo Napoli Teatro Festival sono diversi tra loro solo perché diretti da registi differenti, ma ognuno di noi ha voluto condividere con gli spettatori le medesime emozioni. Alla fine è questo ciò che conta: la reazione del pubblico. Perché senza di esso il teatro non esiste.
È la sua seconda volta a Napoli. Che idea si è fatto della città?
Napoli è una metafora della vita: un misto di ordine e caos, paradiso e inferno, ragione e assurdo. Non è migliore né peggiore di altre metropoli, né più strana o pazza: è solo la rappresentazione dell’esistenza umana che non è certo un giardino ben ordinato, ma una giungla. La cultura napoletana nasce proprio da questa unione straordinaria di sofisticazione e spontaneità. Cechov, come tutti i grandi autori, può raccontarla efficacemente.
Questa esperienza italiana proseguirà?
Sì, porterò Zio Vanja a Roma e Milano e in ottobre sarò a Vicenza, al Teatro Olimpico, con uno speciale allestimento dell’Edipo a Colono di Sofocle. Ma spero di tornare l’anno prossimo in Italia con Il giardino dei ciliegi, l’altro grande capolavoro cechoviano.
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