Dovlatov, la riscossa postuma e l'omaggio della figlia

Katherine Dovlavov, figlia dello scrittore russo, ha tradotto in inglese un'emblematica opera dell’autore: “Il parco di Pushkin” (Foto: Elena Bobrova)

Katherine Dovlavov, figlia dello scrittore russo, ha tradotto in inglese un'emblematica opera dell’autore: “Il parco di Pushkin” (Foto: Elena Bobrova)

La primogenita Katherine racconta la vita inedita dello scrittore, di cui ha appena tradotto un libro, fra i ricordi della sua infanzia in America e la lontananza dalla patria

Russia Oggi rende omaggio allo scrittore russo Sergei Dovlatov incontrando sua figlia Katherine, traduttrice de “Il parco di Pushkin”, emblematica opera dell’autore.

Tradurre un’opera del proprio padre è un compito complesso o gratificante?
Tradurre “Il parco di Pushkin” è stata per me una rivelazione. Non avevo mai tradotto un’opera letteraria, e non avevo idea di quanto un simile lavoro rendesse umili e creasse un rapporto di intimità. Rende umili, perché richiede di distaccarsi completamente dall’opera. Il tuo unico ruolo, in quanto traduttore, è quello di essere portavoce dell’autore. È intimo, perché obbliga a comprendere ogni sfumatura di ogni parola prima di poterla rendere in un’altra lingua. E per riuscirvi, occorre provare a entrare nella testa dell’autore, che in questo caso era mio padre.

Per Dovlatov una casa-museo

È stato difficile, naturalmente, perché, come disse Nabokov, un traduttore “deve possedere altrettanto talento, o quanto meno lo stesso tipo di talento, dell’autore che traduce”. Di certo la mia padronanza dell’inglese non è paragonabile alla maestria di mio padre con il russo. Detto questo, so di aver fatto del mio meglio. E sento che il mio dialogo con mio padre va avanti.

“Il parco di Pushkin” esce per la prima volta in lingua inglese, a 23 anni dall’uscita dell’ultimo lavoro Dovlatov . Come mai ha scelto questo romanzo?
In realtà non l’ho scelto, né ho scelto di tradurlo. Con gli editori “Alma nel Regno Unito e “Counterpoint negli Usa abbiamo firmato un contratto per tre titoli: due riedizioni di opere già tradotte e pubblicate in America quando mio padre era ancora in vita e “Il parco di Pushkin”, del quale esisteva una traduzione inedita, che ha permesso agli editori di capire di che tipo di libro si trattasse. Ma hanno voluto che venisse rifatta. La ricerca di un traduttore è durata quasi due anni. Diverse persone hanno presentato prove di traduzione, ma non siamo riusciti a trovare un accordo. Ho deciso allora di mettermi alla prova e, tramite il nostro agente, ho presentato in maniera anonima un mio campione, che non fu accettato. Continuammo a cercare. I traduttori che mi piacevano o non avevano tempo o non potevano permettersi di assumersi questo incarico. Dopo altri sei mesi ho presentato nuovamente una prova di traduzione, basandomi sulle critiche precedenti. E questa volta l’editore la accettò.

La disinvoltura del Signor Dovlatov

Vuole parlarci un po’ di lei? Dove ha studiato?
Molto tempo fa studiavo pubblicità e comunicazione a New York. All’epoca non sapevo ancora cosa volevo, e presto mi disaffezionai a quel mondo. Dopo la morte di mio padre mi sono trasferita in Russia per tentare di comprenderlo meglio e conoscere le mie radici. Poi, dopo la crisi economica che colpì la Russia nel ’98, decisi di trasferirmi a Londra e iscrivermi alla Scuola di studi slavi ed Est europei. Ho conseguito un diploma in letteratura russa, ed è probabilmente la cosa migliore che io abbia mai fatto per me stessa. Mi ha aiutata a stabilire un dialogo con mio padre.

Se la mia traduzione piacerà al pubblico e gli editori vorranno pubblicare altre opere di Dovlatov, sarò felice di tradurre altri lavori di mio padre. Nella vita, lavoro con un costruttore di case, per il quale allestisco e preparo le case da vendere.  

Dovlatov si trasferì negli Usa nel 1979 (lasciò la Russia nel ‘78 ma arrivò a New York l’anno successivo), quando lei era solo una bambina. Ha mai saputo da lui quale fu la sua prima impressione di New York?
Non ricordo una conversazione specifica, ma solo le mie osservazioni dell’epoca e ciò che ho letto nella sua corrispondenza dopo la sua morte. Credo che mio padre fosse sopraffatto dall’America, come ogni immigrato. Immaginate di vivere in un mondo in bianco e nero, e di trovarvi all’improvviso in un universo sgargiante. Tuttavia, era probabilmente più preparato di molti altri emigrati: conosceva e amava la letteratura americana e il jazz, e contrariamente a ciò che molti hanno detto, parlava inglese. Non benissimo, e non con disinvoltura, ma possedeva un vocabolario invidiabile.

Me lo ricordo, seduto con un registratore, intento a memorizzare diligentemente le parole. Inoltre, quando arrivò in America, trovò la famiglia ad aspettarlo: aveva un tetto sopra la testa, e questo gli permise di riflettere sul proprio futuro. Aveva il lusso del tempo.  

Le sue impressioni cambiarono con il tempo? 
Sulla “tragedia” della vita di mio padre sono state fatte molte supposizioni e speculazioni. La lontananza dalla patria, la nostalgia… La nostalgia è un sentimento comune alla maggior parte degli uomini. Non riguarda lo struggimento per un luogo, quanto per un’epoca. Più invecchiamo e più attingiamo ai nostri ricordi e rimpiangiamo il tempo perso. Ma non c’è bisogno di interpretare questo sentimento come una banale nostalgia per le foreste di betulle.

Naturalmente a mio padre mancava Leningrado, di cui conosceva ogni strada e ogni angolo. E gli mancavano i suoi amici, ma posso dire con certezza che amava l’America. Ed è in America che realizzò i propri sogni, sia personali che professionali. È in America che Sergei Dovlatov divenne uno scrittore, uno scrittore che viveva della propria arte. È vero che il suo pubblico era limitato, e formato prevalentemente da lettori di lingua russa. Naturalmente Dovlatov avrebbe voluto essere pubblicato in Russia, dove avrebbe trovato milioni di lettori. Tuttavia, l’America gli diede molte soddisfazioni e lui era molto orgoglioso dei risultati raggiunti.  

Quale ritiene che sia l’opera migliore di Dovlatov? 
È difficile scegliere. Devo dire però che “Il parco di Pushkin” è tra le migliori. Mio padre non credeva che potesse essere tradotta, e prima di cimentarmi non ne capivo esattamente la ragione. “Il parco di Pushkin” è forse la più russa delle sue opere. E mentre le difficoltà linguistiche sono superabili, i riferimenti culturali presentano diversi ostacoli. Per me, questa è l’opera più personale che mio padre abbia scritto. Parla dello scrivere, della famiglia, dell’amore e della patria. Parla dell’esilio. Parla della situazione di un uomo che non si adatta, che è fuori posto tanto nella Russia del XIX secolo che in quella del XX. Il tutto, concentrato in un centinaio di pagine, colme di personaggi indimenticabili e caratterizzate dal senso dell’umorismo tipico di Dovlatov. 

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