In Russia Talgat Batalov è diventato improvvisamente un uzbeko (Foto: Maria Turchenko / Ufficio stampa)
Talgat Batalov è un giovane uzbeko di origine tatara. Qualche anno fa si è trasferito a Mosca, dove ha intrapreso la carriera di attore e regista. Batalov è da sempre coinvolto nei progetti teatrali più scottanti: suo, per esempio, è lo spettacolo Chas vosemnadtsat (Ore diciotto) che ha per tema la fine dell’avvocato Magnitsky, deceduto mentre era in prigione.
Ma con Uzbek ha deciso di raccontare se stesso. Nella sua pagina su Facebook reclamizza così agli amici lo spettacolo: “Non una parola sui gay. Non una parola sui fascisti. Non una parola sugli antifascisti e nemmeno su Russia Unita. Non una parola neppure sugli orfani. Solo un’ora e mezza su di me”.
Talgat s’ispira per il suo spettacolo alla stand-up comedy e, in effetti, la formula sembra la stessa: un monologo, in cui affronta con humor alcune questioni cruciali. Uzbek potrebbe essere definito uno spettacolo di teatro documentario, a cavallo tra il documentarismo sociale e il cinema d’autore, ed è per questo che un po’ viene rappresentato al centro sociale Andrey Sakharov e un po’ al Teatr.doc.
Fin dall’inizio del suo monologo Talgat dice scherzando che tutti gli abitanti dell’Ubezkistan sono finiti almeno una volta nella vita a Mosca, ma non è altrettanto detto che siano mai stati anche a Tashkent.
Talgat racconta di come sia riuscito, nella provincia di Tver, nelle vicinanze di Mosca, tramite conoscenze, a ottenere il passaporto, superando una coda chilometrica di uzbeki e tagiki in attesa da anni. E narra di persone che vengono spedite per la decima volta in cerca dell’ennesimo documento e anche di impiegate, addette all’ufficio passaporti, rigorosamente osservanti dell’orario di lavoro e delle pause pranzo, che si sentono delle divinità locali, ma sono pronte a tutto per una scatola di cioccolatini.
Il pubblico in sala ride, anche se le risate scaturiscono dalla consapevolezza che non si tratta di una barzelletta o di una finzione teatrale, ma di una realtà che chi ha lasciato le proprie famiglie nelle ex repubbliche sovietiche per venire in Russia a cercare lavoro, è costretto a subire.
Talgat fa ascoltare la registrazione di una telefonata via Skype con sua mamma che spiega come loro sono cittadini russi essendo nati in Uzbekistan, vale a dire in Unione Sovietica, perché quella è la loro nazione, sebbene poi, negli anni ’90, abbia smesso di esistere, insieme alla libertà di circolazione tra Mosca e Tashkent. E sia avvenuta cioè quella dissoluzione che ha provocato il fenomeno dei clandestini e dei migranti che per sbarcare il lunario hanno ripudiato la loro patria per andare a Mosca a fare il kebab.
Secondo i dati in possesso dell’Ufficio federale dell’immigrazione, alla fine del 2012, era stimata in Russia una presenza di 3-5 milioni di immigrati clandestini. Complessivamente entrano in Russia ogni anno dai 10 ai 12 milioni di stranieri di cui il 70 per cento è costituito da cittadini provenienti dai paesi della Csi, vale a dire dalle ex repubbliche sovietiche.
Batalov, in un’intervista concessa alla rivista Bolshoy gorod, dichiara a tal proposito: “Vorrei farmi ascoltare da quelle persone che si sono formate la bizzarra idea che gli immigrati vengano qui per togliere loro il lavoro”.
Talgat ha avuto fortuna, ha messo in scena il suo spettacolo e il pubblico va a vederlo. Quando viveva in Uzbekistan era considerato russo, mentre in Russia è diventato di colpo un uzbeko. Ora si trova lontano dal suo paese che, benché non faccia più parte dell’Unione Sovietica, conserva intatta la sua principale caratteristica, quella di avere un governo autoritario pluriennale su cui si ironizza sottovoce, ma al di fuori del quale non si riesce a concepire la propria esistenza.
Talgat mostra agli spettatori anche il vecchio cinema uzbeko, buono e saggio, con i suoi film che raccontano della seconda guerra mondiale che ha unito i cittadini sovietici assai più dei confini comuni nazionali.
E l’esito è che il brillante monologo da stand-up comedy risulta in realtà uno spettacolo davvero tragico, pieno di nostalgia in cui i protagonisti sono persone che sognano sì di lasciare l’Uzbekistan per sbarcare il lunario, ma anche al tempo stesso di tornarvi perché là è la loro casa, siano essi russi, uzbeki o tatari.
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