L'attore-detenuto Aniello Arena legge Dostoevskij (Foto: Simone Lupino)
Dal film “Reality” di Matteo Garrone a “Memorie da una casa di morti” di Fedor Dostoevskij. Nessuno meglio di Aniello Arena, detenuto al carcere di Volterra dove sta scontando una pena all’ergastolo, poteva rendere la lettura del romanzo ispirato al periodo in carcere dello scrittore russo. Esperienze, epoche, paesi e crimini diversi, che in comune hanno un aspetto, come ha spiegato lo stesso Arena: “La consapevolezza che la vera libertà è solo dentro di noi”.
Arena, ex soldato della camorra, diventato famoso per la sua interpretazione del pescivendolo napoletano prigioniero del sogno di partecipare al “Grande Fratello”, è stato ospite della rassegna “Bagliori d’autore” a Perugia. Nella Sala dei Notari di Palazzo dei Priori ha letto sei brani del romanzo - dall’entrata in carcere del protagonista fino all’ultimo giorno della pena -, emozionando il pubblico.
Specie nei passaggi in cui si capiva che l’attore riconosceva come proprie le sensazioni descritte dall’autore: “La prima volta che l’ho letto – ha spiegato poi Arena – mi sembrò che Dostoevskij lo avesse scritto proprio per me”. Quindi spazio alle domande.
Aniello Arena in un frame del film "Reality" di Matteo Garrone
Lei è un attore-detenuto,
ma forse sarebbe meglio dire un detenuto-attore. Rappresenta un po’ il riscatto
di chi ce la fatta, che, insomma, un “fine pena” non equivale alla morte
civile...
In effetti è così. Per me è stato fondamentale l’incontro
con la Compagnia della Fortezza (la compagnia di attori del carcere di
Volterra, ndr). Ne sentii parlare appena
arrivato, essendo napoletano, pensavo di andare a fare sceneggiate napoletane,
fui spinto più dall’entusiasmo. Solo poi vidi che si trattava di tutta un’altra
cosa rispetto a quella che immaginavo.
Ci spieghi meglio.
È teatro sperimentale, i testi classici scompaiono, ne
rimane la struttura. Anche la messa in scena cambia, c’è un rapporto quasi
fisico con il pubblico, si va diretti, non c’è distanza.
Come fu il suo
debutto?
Era il 2002, l’“Opera da tre soldi”. Ero molto timido,
quando toccò a me salire sul palco mi andai a nascondere dietro il guardaroba,
non appartenevo a quella cosa, mi vergognavo. Vennero a prendermi per mano come si fa coi bambini, fu una svolta, non mi fermai più.
La sua è una
vocazione?
Penso che un talento innato lo devi avere, come nel calcio
per intenderci. Io lo capii dopo diversi anni, anche se, da subito, dopo gli
spettacoli, le persone venivano e mi facevano i complimenti. Io ero incredulo,
essendo in un carcere non capivo bene. All’epoca non uscivo ancora, ancora non
andavo nei teatri, poi iniziarono a intervistarmi i giornali e allora inizi a
credere di essere davvero un attore. A me piaceva solo farlo, faceva stare bene:
prendevo tanto dal pubblico, ma quel tanto, allo stesso tempo, io lo restituivo,
una cosa che si scambiava.
Il film di Garrone
l’ha proiettata su palcoscenici internazionali come il Festival di Cannes, anche
se poi non è potuto andare. Questa sua condizione da star come è percepita dai
suoi compagni, con ammirazione e solidarietà, oppure con invidia?
I detenuti che fanno parte della compagnia, una cinquantina,
erano contenti. Magari – pensavano- un altro regista la prossima volta sceglierà
noi. Anche chi non mi conosceva si complimentava. Poi l’invidia fa parte della
razza umana. Ma io credo che per tutti loro ho rappresentato una speranza.
Come ha vissuto il
successo?
Premetto che io sono sempre io, non me ne sono andato con la
testa. L’ho vissuto con serenità. Dopo Cannes non so quante interviste ho
rilasciato, venivano giornalisti di tutte le nazionalità, televisioni
dall’estero, mensili, quotidiani. Con i miei compagni ho condiviso tutto. Ormai
sono il più vecchio della compagnia, sto a Volterra dal 1999, mi cercano per
consigli, io ne dispenso per la mia esperienza.
Tornando a
Dostoevskij e alle “Memorie da una casa di morti”, qual è la parte che le
appartiene di più?
Di sicuro quando il protagonista si volta indietro a
guardare il passato e a quanto tempo ha sprecato. Dostoevskij prima di venire
imprigionato era già uno scrittore, un intellettuale. Figuriamoci una persona
come me. Penso ancora a quando ero ragazzo, a quanti errori ho commesso. Poi mi
ha colpito la parte in cui racconta che il carcere era completamente diverso da
come se lo aspettava; anche io ho provato
la stessa cosa. Ho ritrovato in lui i miei stessi pensieri, pensavo che
lo avesse scritto proprio per me.
Dostoevskij dice che
il grado di civilizzazione di una civiltà si misura dalle sue carceri…
Io ho girato dieci istituti prima di Volterra e alcuni, per
il problema del sovraffollamento, sono veramente un inferno. Chi sta a Volterra
è un privilegiato. In generale non ritengo che un indulto serva a risolvere la
questione. Il problema del carcere è il dopo, se metti fuori ventimila persone
senza un punto di riferimento, cosa faranno, dove andranno? Ci devono essere
alternative, bisogna reinserire i detenuti piano piano. Volterra, bene o male, lo
consente. Noi veniamo pagati con il teatro, il teatro ci dà un'alternativa,
per questo sarebbe bello venisse realizzata a Volterra una compagnia di teatro
stabile.
Cosa le ha dato il
teatro e che cosa si porterebbe ancora del suo passato?
Il teatro mi ha dato la persona che sono oggi, una crescita
graduale, anno dopo anno. Il passato? La maggior parte del periodo di quando
ero giovane l’ho sotterrata, porterei solo le cose belle, ma quell’Aniello non
c’è più.
Ha mai pensato di
scrivere un libro?
Se dovessi decidermi, sarebbe autobiografico. Mi limiterei, però, perché non mi piace mettere i fatti miei in piazza. Potrebbe essere un
messaggio, mantenendomi alla superficie. Scendere troppo nei dettagli non porterebbe a niente.
È mai stato prigioniero
di un sogno come il personaggio di “Reality”?
Sarò banale, ma il mio sogno è essere libero. E vedere Napoli,
o almeno una parte di Napoli, cambiata. Così come sono cambiato io.
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