L'artista russo Evgeny Antufiev, mentre lavora al suo libro (Foto: Giulia Di Lenarda / gentile concessione dell'Ufficio Stampa)
Per decifrare l’opera di Evgeny Antufiev, per la prima volta in Italia alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia con la personale “Twelve, wood, dolphin, knife, bowl, mask, crystal, bones and marble – fusion. Exploring materials” (fino al 31 luglio 2013), è necessario conoscere il personaggio. Ne sembra disposto il ventiseienne artista russo, dai modi apparentemente confidenziali con i visitatori che hanno affollato l’opening della mostra, in realtà sfuggente quando gli si chiede di approfondire la sua biografia.
“Non desideravo fare l’artista”, racconta, la figura allampanata negli abiti scuri, il volto esangue dietro i grandi occhiali. “Dalla Repubblica di Tuva mi trasferii a Mosca per studiare giornalismo, professione di famiglia. Condividevo l’appartamento con un amico artista: passavamo le notti a discutere d’arte, lui con il suo punto di vista concettuale e a volte noioso, io con il mio, focalizzato sugli oggetti. Poiché sin da bambino amavo realizzarne, mi suggerirono di esporli: successe e per la mia prima personale ebbi a disposizione ben 200 metri quadrati al Centro d’arte contemporanea Vinzavod di Mosca. Solo dopo frequentai l’Istituto d’Arte contemporanea, l’unico della capitale, della durata di un solo anno”.
Legato alla Galleria moscovita Regina, tra gli artisti presenti alla mostra “Ostalgia” di New York, altro della biografia di Antufiev non si riesce a sapere dalla sua voce: alle domande risponde con racconti surreali o invita a farlo i due amici che lo accompagnano.
Conviene dunque partire da quegli oggetti per cui Antufiev ha una vera e propria ossessione, feticci di una mitologia personale, che come hanno notato i critici russi lo fanno annoverare tra gli artisti “collezionisti” delle proprie opere, custodite con cura maniacale.
Frammenti di cristalli, denti di animali, maschere e ossa polverizzate: sono questi gli oggetti protagonisti della mostra di Evgeny Antufiev alla Collezione Maramotti, Reggio Emilia (Foto: Dario Lasagni)
Non è un caso che per entrare a visitare l’esposizione, immacolata nel dominante tono bianco - o meglio “congelata” come lo stesso artista la definisce - si è invitati a indossate un paio di sovrascarpe da ospedale, anche se egli si scusa se nascondono le belle calzature italiane.
Disseminando indizi, illustra eccitato, mentre gli sfugge qualche risata nervosa, i suoi manufatti, poeticamente inquietanti: frammenti di cristalli e meteoriti, coltelli siberiani, maschere arcaiche, denti e teschi di animali della steppa, la zampa di un uccello, una libellula spillata à la Damien Hirst, le ossa polverizzate di un delfino (animale che è il filo conduttore della mostra), disposti in teche ed étagères insieme a pupazzi in stoffa da lui stesso cuciti, simili a quelli di Louise Bourgeois. “Benché io sia di religione ortodossa mi affascina lo sciamanesino”, dice, rimandando alle tradizioni della sua Siberia e mostrandoci sulla copertina del suo libro d’artista la foto delle mani di un amico sciamano presso il quale ha vissuto qualche tempo. “Ammiro la sua creatività nel fabbricare oggetti di grande bellezza. Non mi interessa invece l’arte contemporanea”, ribatte provocatorio alla domanda di conoscere i suoi artisti di riferimento: “Trovo molto più stimolanti i negozi di cineserie.”
All'interno della mostra domina il tono del bianco. Veduta della mostra, Collezione Maramotti, Reggio Emilia (Foto: Dario Lasagni)
Un universo immaginifico e rituale, aperto sull’infinito eppure ripiegato sul proprio narcisismo appare quello di Evgeny Antufiev, che nell’ultima sala della mostra dice di aver riprodotto la propria camera. Del resto è egli stesso a indicarci coloro che considera i propri co-autori: la mamma che si aggira con look eccentrico, la sorella che gli somiglia e una piccola delegazione di giovani connazionali abbigliati da fashion victims, mentre la nonna è simbolicamente presente con un ciuffo di capelli lilla esposti in mostra.
Tutti arrivati per rivederlo dopo la residenza artistica di ben due mesi a Reggio Emilia, vivendo presso la foresteria della Collezione Maramotti: “Della città mi ha suggestionato in particolare il suo essere immersa nella nebbia: un biancore che esalta gli oggetti. E aggirarmi per le sale e i corridoi della Collezione, come fosse un labirinto: una figura magica per me. Negli archivi ho trovato anche stoffe preziose, ideali per i miei lavori, che ho aggiunto ai materiali portati da Tuva”, racconta, mentre gli amici ridono ripensando alla sorpresa dei doganieri che analizzavano il contenuto dei suoi bagagli.
“Progetti italiani dopo questa prima mostra europea? Ora non voglio pensarci: mi devo rigenerare… come una perla”.
Per informazioni sulla mostra cliccare qui
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