Vignetta di Niyaz Karim
Sulla fine del mondo, che era attesa con isterica trepidazione il 21 dicembre 2012 dagli ingenui di tutti i Paesi e di tutti i popoli del mondo, ho avuto, per così dire, notizie di prima mano nella giungla bassa dello Yucatan.
Dopo essermi arrampicato a fatica sulla piramide a gradini e aver ammirato il monotono paesaggio, la parte più pittoresca del quale era costituita da un variopinto gruppo di californiani New Age, comodamente sistemato sulla cima, mi sono sentito spiegare, con la cordialità tipica dei folli, che il tredicesimo baktun, che ha avuto inizio l’11 agosto 3114 a.C. si avvia alla conclusione e che il mondo scomparirà prima delle feste di Natale.
La nostra guida messicana, come se niente fosse, ha confermato queste previsioni. "Non è la prima volta che accade, - ha detto con amarezza, - dopo il diluvio gli uomini sono diventati pesci, dopo l’uragano scimmie, dopo l’incendio uccelli, più precisamente tacchini, e ora il mondo verrà sommerso da una pioggia di sangue".
"In che cosa ci trasformeremo questa volta?". "Non ci trasformeremo in niente", ha replicato la nostra guida, spalancando le braccia e facendo dietrofront.
Non ho mai creduto al calendario dei Maya poiché loro stessi parevano prestarvi meno attenzione che non al calcio. Inoltre, una catastrofe universale mi è sempre sembrata una soluzione troppo facile: ogni cosa è meglio della morte.
Tuttavia, in America, sono in pochi a condividere il mio pessimismo e migliaia di profeti attendono con trepidazione la fine del mondo. Al Sud, dove la fede è più salda, è facile leggere sul parafango di un’auto la scritta: “In caso di un secondo avvento quest’auto resterà senza guidatore”.
Da noi, a New York, ci si aspettava qualcosa di simile alla morte del rabbino Schneerson, la cui vita per un attimo mi ha sfiorato quando i chassidim mi affidarono la redazione delle sue memorie. Dai manoscritti appresi che il rabbino aveva studiato all’Accademia navale, era stato internato in una prigione della Gpu e aveva filosofeggiato con Sartre a Parigi. A Brooklyn erano in molti a ritenerlo un messia e non potevano credere che fosse morto per sempre.
Yuri Gendler, che aveva trascorso anni nelle prigioni della Mordovia, sosteneva che nei lager l’offesa maggiore che si potesse arrecare a un membro di una setta fosse quella di non aver azzeccato le profezie.
Il fatto che il mondo non finisca quando ce lo si aspetta, non significa che la fine del mondo sarà scongiurata. Sappiamo esattamente che la Terra si dissolverà quando entrerà in collisione col Sole, ma chi non può permettersi di aspettare miliardi di anni può scoprire che cosa sarebbe accaduto il 21 dal più bel film apocalittico che sia mai stato girato: Melancholia, di Lars von Trier, in cui il regista affronta il tema dell’apocalisse dal punto di vista psicologico.
Il trailer in italiano del film "Melancholia" di Lars von Trier, 2011 (Fonte: YouTube)
Un asteroide si sta avvicinando alla Terra. L’eroina del film, Justine, che ha il dono della profezia, sa che siamo prossimi alla fine. Questa rivelazione non è immediata, ma progressiva, e alla fine Justine si persuade dell’ineluttabilità dell’evento, sforzandosi di far conciliare la rivelazione con la vita ordinaria, prendendo marito. Ma non servirà a nulla. Il lavoro e l’amore, il talento e la carriera, la festa e il sesso, la torta e il cognac, tutto ormai non ha più senso, né gusto. Non sappiamo vivere dell’attimo presente, ma solo ipotecando il futuro, e non c’è futuro. Justine sa che il giardino non farà in tempo a crescere, il fidanzato non farà in tempo a diventare un marito, il matrimonio non si trasformerà in famiglia, il lavoro in carriera.
Tutto ciò le è noto in anticipo poiché i profeti non perseguono la conoscenza, l’accolgono, come un marchio, una maledizione, una volta per sempre. Il problema non è tanto come vivere alla vigilia della fine del mondo, un mese, una settimana, un giorno, un minuto. La sorella della nostra eroina, Claire, si comporta come tutti vorremmo comportarci. Si prepara come a un banchetto funebre: predispone il vino, le candele, sceglie come sottofondo la Nona di Beethoven, malgrado, come è noto, questa sinfonia celebri la gioia. Non vi è nulla di cui gioire e per Justine meno che per gli altri: come tutti i profeti, Justine sa che cosa che avverrà, ma soprattutto che cosa non avverrà.
Ogni Apocalisse è portatrice di beatitudine, poiché contempla in sé non solo la punizione per i peccatori ma anche la salvezza per i profeti, non solo il tempio distrutto, ma anche la nuova Gerusalemme, non solo il tempo sconfitto, ma anche l’eternità esultante. Il giudizio finale è severo, e, tuttavia giusto, separa le pecore dalle capre. Ma per Lars Von Trier questo giudizio non è abbastanza terribile.
Per l’ospite celeste non fa differenza. Con tutta la nostra cattiveria, la nostra bontà, la nostra musica di Beethoven per lui non siamo meglio dei dinosauri. All’universo importa poco della nostra vita poiché essa non ha sostanza universale. La mente - scopre Justine nel suo delirio profetico, - è un’eccezione; qualcosa di unico, fluttuante e casuale, che svanirà per sempre senza lasciare tracce.
E allora a che serve questa nostra conoscenza ormai futile e disperata?
Von Trier, sulla scia di Dostoevskij, trova la soluzione nelle lacrime innocenti di un bambino. La nostra eroina ha un nipotino che non può essere salvato, ma che si può distrarre. Su questo illusorio inganno si concentrano gli ultimi minuti della loro vicenda terrena. Justine costruisce una capanna nel campo, convicendo il ragazzino che sarà in grado di proteggerli dal pianeta Melancholia che s’avvicina e già ha occupato la metà del cielo. La capanna è fatta di rami di betulla. È un gesto ridicolo, ma terribile e puro. Newton non ci ha salvati, Beethoven non ci ha aiutato, l’immortalità non esiste e neppure la speranza, ma la fragile capanna di rami ricurvi ha funzionato: è riuscita a confortare il piccolo infelice, anche se si tratta di un’illusoria menzogna. Ma questa è l’arte, e non è poco.
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