Proteste, cosa è cambiato

Vignetta di Alexey Iorsh

Vignetta di Alexey Iorsh

I manifestanti e la classe dirigente si avvicinano alla ricorrenza dell'anniversario delle manifestazioni che hanno scosso le grandi città del Paese in un scenario totalmente diverso

Un anno dopo le proteste civili che hanno scosso, se non tutto il Paese, almeno i cittadini delle megalopoli, e soprattutto l’élite politica, si può affermare con certezza che i manifestanti e la classe dirigente si avvicinano alla ricorrenza in un scenario totalmente diverso. E non si può dire che sia più rassicurante né per gli uni né per gli altri.

Nell’ultimo mese e mezzo la componente repressiva del governo si è chiaramente rafforzata. I leader dell’opposizione e i partecipanti alle varie manifestazioni e marce sono stati messi sotto torchio. A novembre 2012 è arrivata la prima sentenza per uno dei manifestanti delle proteste di maggio nella piazza Bolotnaja di Mosca. Ancora prima ci sono state le ballerine-cantanti nella Chiesa del Cristo Salvatore, la cui condanna ha fatto rabbrividire persino molti esponenti dei piani più alti del potere. I leader delle proteste hanno di colpo diminuito il loro attivismo sociale e alcuni lo hanno interrotto del tutto.

L’onda dei “cittadini arrabbiati” si è consumata lasciando un senso di disagio con una duplice caratteristica; da una parte la paura: molti adesso ci penseranno sul serio al prezzo che sono disposti a pagare per manifestare pubblicamente la propria insoddisfazione civile. Dall’altra, la delusione: i numerosi dibattiti dei capi dell’opposizione, dove dopo i primi scambi i contendenti passano a offendersi e chi sta intorno viene giudicato soltanto dal grado di antipatia verso una persona, hanno posto alcuni interrogativi sul senso della dignità e del rispetto. 

Inoltre qualsiasi onda si spegne. Se le persone non fanno i rivoluzionari di professione non possono tenere accesa la fiamma per sempre, tanto più in mancanza di un vero dibattito formulato in modo convincente.

Ciò che sconforta più di tutto è vedere che si disperdono figure non così tanto motivate a fare la rivoluzione, esponenti della cosiddetta intelligentsia e che oggi si può a buon diritto definire l’élite culturale del Paese. Individui che si sono meritati con i fatti e le parole il rispetto dei cittadini. Ultimamente però anche loro si sono messi un po’ nell’ombra.

Può darsi che sia un processo legato non soltanto alla paura e alle reazioni delle autorità, ma anche a un oggettivo fluire della vita: l’onda si solleva, l’onda si spegne. Ora sono tutti andati a prendere coscienza di quanto è accaduto.

Alcuni esperti non si aspettano affatto una nuova esplosione di attivismo sociale fino al 2014, anno in cui si terranno le elezioni del sindaco della capitale e potrebbero iniziare i primi movimenti per l’organizzazione delle elezioni parlamentari del 2016. Lì sì che il barometro sociale si farà vedere, mostrando non soltanto gli umori della classe più creativa, ma anche la loro nuova condizione. Dimostrerà se gli insoddisfatti sono pronti entrare in scena un’altra volta, con quali mezzi, con quanta verve e quali leader. Di rimando anche le misure del governo saranno indicative: di prevenzione o reazione, costruttive o repressive.

Appena però l’onda delle proteste è iniziata a scemare, sia all’interno dell’elite sia nei suoi confronti si sono messi in moto alcuni provvedimenti. Tutto è iniziato dal progetto di legge di vietare agli attivisti stranieri i richiami alla “nazionalizzazione” e al “patriottismo” della classe dirigente. Quindi si sono susseguiti allontanamenti a un ritmo sconcertante, dato che in tutto il precedente decennio non era accaduto niente di simile: in meno di due mesi due ministri – di cui uno molto importante – deputati, funzionari regionali, dirigenti di grandi società. E quasi tutti a seguito di scandali finanziari.

Nessuno afferma che queste vicende siano anelli di una stessa catena, al contrario seguirebbero piuttosto logiche e cause diverse: la lotta tra i clan e le punizioni esemplificative, nella filosofia del “che servano da lezione”. Si ha tuttavia l’impressione che i due processi siano in qualche misura legati uno all’altro: la ripresa di lotte e offese crescenti a fronte di un cambiamento d'opinione sulla lealtà. La cosa più interessante però è capire il perché questo sia diventato possibile.

Qui i pareri divergono. Alcuni sostengono che la caduta in disgrazia di una serie di funzionari sia una diretta conseguenza dei loro eccessi, del fatto che abbiano “perso il senso della misura”. Altri partono dal fatto che la “misura” sia un concetto vago e se la dedizione di un individuo non suscita domande, la misura che gli viene attribuita nei fatti concreti diventa consistente.

Di conseguenza aver oltrepassato la “linea rossa” non è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Ci è voluto qualcos’altro, per esempio, la mancanza di segnali chiari dall’alto, chi si poteva “spostare” e chi rimaneva come prima nel novero degli “intoccabili”.

La verità, come spesso accade, sta probabilmente nel mezzo. Dopo aver subodorato che il principio dell’inamovibilità si era indebolito, vari gruppi si sono lanciati alla conquista di nuove “terre”. Il mantra secondo cui “non ci sono intoccabili”, ripetuto nelle ultime settimane agli stessi funzionari, ha l’aria di essere un tentativo di convincere se stessi del contrario. Le alte sfere non possono non capire che sono quasi tutti estremamente vulnerabili e che il loro successo o meno spesso è dovuto solamente alle condizioni di favore e di forza, proprie o del gruppo a cui appartengono.

Ciò che sta accadendo in questo momento porterà quindi all’élite maggiore coesione oppure al contrario la spingerà a mettere i propri interessi al di sopra della solidarietà “corporativa”. Molto dipenderà da quali saranno le emanazioni più forti, lungimiranti o navigate che si potranno cogliere nei prossimi venti politici.

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