Zakhar Prilepin, ex poliziotto, oggi noto romanziere russo (Foto: Ufficio Stampa)
Di recente il settimanale tedesco Die Zeit ha pubblicato una curiosa lista: i testi degli ultimi sette decenni postbellici che costituiscono nel loro insieme “il canone letterario europeo”. Se nel “canone” è entrato un po’ di tutto, la Russia è rappresentata soltanto da due testi, il“Gulag” di Solzhenitsyn e lo “Zhivago” di Pasternak, non certo due novità, per usare un eufemismo, e comunque, verrebbe da dire, non caratterizzanti la letteratura russa dell’ultimo periodo.
I letterati russi di oggi si trovano alla periferia dell’interesse dei lettori stranieri. La stessa Russia poi è percepita come una noiosa periferia, soltanto molto grande. Una volta lì c’era la terribile Unione Sovietica. Poi arrivò il buon Gorbaciov (in Russia lo odia il 99 per cento della popolazione, bisogna ammetterlo). Seguì Eltsin, l’ubriacone, ma non malaccio (nove su dieci disprezzano anche lui). Adesso c’è Putin che parla tedesco e fa finta di essere molto terribile (in realtà, ovviamente, non lo è).
In ogni caso l’attenzione verso la Russia dal punto di vista culturale equivale a quella verso qualsiasi Paese africano o latinoamericano di terz’ordine. [...] La Russia sarà anche un Paese piuttosto bizzarro, ma parola d’onore, è semplicemente impossibile immaginarsi che da noi compaia un romanzo di uno scrittore tedesco contemporaneo su come oggi, tra le foreste intorno a Berlino, si nasconda un reparto di ex SS che insieme a figli e nipoti, al suono della musica di Wagner, saccheggia i treni di passaggio, leggendo ad alta voce Junger e battendo sul tamburo di latta. O che i lettori russi credano che quanto descritto sia la verità e gli editori scrivano sulla copertina: “Ecco i figli del Lupo della steppa, più sensazionale del Faust di Goethe”.
Oppure, immaginiamo, che un qualche letterato francese arrivi in Russia e dall’alto dei suoi 22 anni si metta a raccontare a tutti che aveva fatto il cecchino in Algeria, poi il brillatore in Iraq, dove aveva personalmente catturato e imprigionato uno dei figli di Hussein, e ora sia lì a presentare il suo libro dove i valorosi commando francesi, nutrendosi di rane, compiono imprese fuori dall’ordinario, e che tutto questo sia pubblicato da noi con lo slogan: “Quest’autore è benedetto da Dumas e de Saint-Exupéry”.
Una cosa simile non accadrebbe mai! Tutti capirebbero all’istante che ci stanno proponendo una bufala. In Europa invece, ecco, passano anche robe così. Ne passano anche altre, ma spesso diventa più popolare una solenne baggianata che in Russia nessuno si metterebbe a leggere.
I miei libri sono stati tradotti in 14 lingue, e nemmeno per un attimo mi ha sfiorato l’idea di considerarmi uno scrittore con un nome europeo; si tratta, suppongo, di un fraintendimento che si è un po’ tirato per le lunghe, interessante per una stretta cerchia di specialisti e per l’intellighenzia che ancora si occupa di Russia.
L’aver osservato l’industria editoriale e la diffusione della letteratura russa in Occidente mi ha fornito alcuni spunti su come si deve promuovere uno scrittore russo per raggiungere il grande pubblico.
Di qualunque cosa parli il libro di tale scrittore, sulla copertina del testo bisogna scrivere: “Il figlio di Alesha Karamazov. Il fratello delle ragazze del gruppo Pussy Riot. Anna Politkovskaja amava questo libro”.
Non dico che il successo sia assicurato, ma qualche centinaia di lettori butterà sicuramente l’occhio sulla copertina e sfoglierà il libro alla ricerca del punto in cui si parla delle Pussy Riot e di come Putin abbia ucciso la Politkovskaja.
Pur correndo il rischio di farvi restare male, forse è arrivato il momento di fare luce su un paio di cosette. Anna Politkosvkaja è una donna assolutamente geniale, lavoravamo nello stesso giornale, anche se non ci conoscevamo bene. La sua morte è una mia tragedia personale, nella Russia di oggi se ne sente molto la mancanza, ha fissato un livello di onestà e di rifiuto del compromesso praticamente inarrivabili.
Tuttavia il significato che in Occidente si dà all’immagine della Politkovskaja non è minimamente comparabile alla sua ricezione in Russia. Per la maggioranza dei cittadini della Federazione il suo nome e il suo ruolo sono ben lontani dall’essere decisivi.
A maggior ragione, misurare l’importanza di un libro di uno scrittore russo basandosi sul suo rapporto con la Politkovskaja sarebbe tanto strano come presentare uno scrittore tedesco contemporaneo facendo un rimando all’opinione di un dissidente della Ddr ucciso in circostanze oscure che chiaramente non ha letto il libro da lui reclamizzato e comunque si occupava di altro.
Una faccenda ancora più triste è quella delle Pussy Riot. Questo vi lascerà ancor più l’amaro in bocca, ma pur rendendosi conto dell’incommensurabilità della violazione dei diritti e della condanna bestiale che ne è seguita, la schiacciante maggioranza dei cittadini della Russia – intellighenzia compresa – ritiene onestamente, da un punto di vista etico ed estetico, che l’azione di quelle povere ragazze sia semplicemente inqualificabile.
Tuttavia se un gruppo di giovani avesse inscenato un ballo appassionato con spogliarello annesso accanto al Papa, difficilmente, a mio parere, si sarebbero trovati in Occidente difensori così intrepidi dell’atto compiuto. Il che, sono obbligato a ribadire, non giustifica minimamente la barbarie della giustizia russa.
Non so per voi, ma qui da noi è chiaro che Alesha Karamazov e le Pussy Riot sono agli antipodi di due diverse concezioni del mondo.
Vi ricordate che in Dostoevskij c’era anche un altro personaggio, di nome Smerdjakov? Anche lui un fratello dei Karamazov, soltanto illegittimo. Riflettete un po’ su quella figura se non avete dimenticato la trama del romanzo. Forse vi spiegherà qualcosina sulla situazione che si è creata da noi.
La letteratura russa oggi è tormentata da presentimenti apocalittici e si trova allo stesso tempo alla ricerca di una tradizione quasi ormai perduta. I lunghi anni di indefesse buffonate, follia vigliacca e offese hanno spaventosamente sfiancato sia il lettore sia lo scrittore russo.
L’esibizione pubblica delle piaghe nazionali fa venire il voltastomaco. I fiori del male non rallegrano nessuno e il loro odore ci ha disgustato. L’estetica della disgregazione ha smesso di sedurre. Che poi l’aveva forse fatto con Pushkin, Lev Tolstoj o Cechov?
Il lettore occidentale ha amato la grande letteratura russa per l’ineffabile ma radicata sensazione di una presenza divina nel mondo, per l’idealismo scevro di dogmi e moralismi, per le forti idee sull’esistenza di bene e male.
Qualunque grande scrittore russo è un conservatore, spesso poco incline a una smodata tolleranza, una persona davvero inflessibile. E non vale soltanto per i russi. Ho appena letto in una delle lettere del mio amato Thomas Mann parole sagge: “C’è qualcosa di pietoso nell’autoflagellazione e nella negazione della grandezza tedesca”.
Vorrei utilizzare queste parole anche per la Russia odierna. … Mi sa che sia meglio fare qualche nome perché questo discorso sulla letteratura non sia campato per aria. A mio parere ci sono alcuni autori che sono stati toccati dall’ala della grande arte russa della parola.
Una serie di scrittori quarantenni lavora in modo splendido. Mikhail Tarkovskij e i suoi racconti lunghi siberiani. Aleksandr Terechov, autore del superbo “Kamennyj most” (Il ponte di pietra). Aleksej Ivanov che ha scritto il non meno significativo lavoro “Bludo i MUDO” (Libido e palle ). Dmitri Bykov che negli anni Duemila ha presentato gli epocali “Oprovdanie” (La giustificazione ) e “Ostromov”. Aleksandr Kuznecov-Tuljanin con la saga senz’altro classica “Jazychnik” (Il pagano ).
Sono più che convinto che i maestri della vecchia generazione, quali Andrej Bitov, Valentin Rasputin o Eduard Limonov, potrebbero aspirare al premio Nobel per la Letteratura. D’altro canto, come si dice in Russia: “Farlo sa farlo, ma chi glielo ha chiesto?”
Storicamente è sempre stato così, la letteratura russa è arrivata in Europa a braccetto con l’imponente e spaventoso Stato russo. All’inizio i cosacchi a Parigi, le spartizioni della Polonia e il “gendarme d’Europa”, subito dopo Dostoevskij e Turgenev. Poi i russi nello spazio, i gulag e i carri armati in Ungheria; ed ecco Mikhail Bulgakov e Mikhail Sholochov.
Certo, sarebbe bello fare a meno, finalmente, di carri armati e cosacchi. Sarebbe bello che ci leggessimo a vicenda, semplicemente perché andiamo d’accordo e facciamo dei librini niente male.
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